25 dicembre 2010

Citazione natalizia

Sprechiamo la gioventù a conquistare la ricchezza e la ricchezza a conquistare la gioventù

Douglas Coupland

23 dicembre 2010

I tempi cambiano

Buon Natale a chiunque passi di qua.

22 dicembre 2010

Ciao Enzo

Sicuramente è il ricordo calcistico più bello di tutta la mia vita. Quel mondiale di quasi trent'anni fa è rimasto scolpito nella mia memoria in modo indelebile, molto più che qualsiasi altra partita o evento calcistico precedente o successivo.
Io avevo 12 anni allora. A quell'età il calcio era, come penso sia ancora, quasi un dovere, faceva parte del modo di vivere e anche di pensare di quasi qualsiasi coetaneo che io conoscessi. Figurine, partite improvvisate ovunque, inclusione in squadre serie, gare di rigori, giochiamo al torello, ultimo in porta, portiere volante, palloni di plastica, palloni di cuoio, scarpe devastate dal gioco e mamme furiose…
Per noi era IL GIOCO. Se due o tre ragazzini si trovavano insieme, si giocava a calcio. Fosse anche in casa, nel corridoio, o nel cortile. A scuola nell'intervallo erano d'obbligo partite tumultuose, 15 contro 15 in un cortile, si tornava in classe sudati come bestie.
Dove ho fatto le medie poi, proprio in quegli anni, c'era un grande cortile con 5 o 6 porte disegnate su un muro e le colonne del porticato sul lato opposto del cortile. Si giocava lì, ogni classe aveva le sue due porte e giocava la sua partita contemporaneamente alle altre classi che giocavano la loro tra le loro porte. Vista dall'alto doveva essere impressionante. Tremende pallonate in faccia e scontri spacca-denti tra giocatori di partite diverse erano all'ordine del giorno. Anzi, ne capitava una ogni minuto.
Perfino da soli si giocava. Perfino in classe. Ricordo che disegnavamo azioni di gioco con omini stilizzati e la traiettoria del pallone disegnata a trattini. Alla faccia di chi pensa che siano i tempi moderni ad avere creato questa overdose di calcio.
E poi quell'anno c'erano i mondiali.
Se ne parlava in tv e sui giornali, si faceva l'album, si parlava di quelle nazionali fortissime che arrivavano dal sudamerica, Zico e Maradona erano già leggende, noi impersonavamo i loro nomi quando giocavamo, io sono Socrates, io Rummenigge, io Falcão. Gli italiani prima del campionato non erano molto ambiti. Giusto Bruno Conti, che giocava come un brasiliano.

Poi venne veramente il mondiale, quel Mondiale. Anzi, il Mundial.
La storia è stranota: l'avvio difficile dei tre pareggi contro le squadrette Perù, Polonia e Camerun, la delusione, il silenzio stampa, il terribile girone di ferro contro Argentina e Brasile, le più forti di tutte (ricordo nitidamente un articolo di Sivori che diceva "Italia rassegnati, sono di un altro pianeta"), la vittoria inaspettata con l'Argentina, Gentile contro Maradona, la vittoria ancora meno pronosticabile contro il fantastico Brasile, Paolorossi tuttoattaccato, la tripletta, i gol-rapina, l'euforia (Sivori tiè!), la passeggiata con la Polonia in semifinale, ancora Paolorossi in doppietta, la finale, le città addobbate di tricolori come non le ho mai più viste, macchine dipinte di vernice verdebiancorossa. Mi chiedevo che ne avrebbero fatto di quella macchina se l'Italia quella sera non avesse vinto. Ora mi chiederei pure che se ne siano fatti di una macchina conciata così dopo i festeggiamenti della sera, ma ora sono più cinico. Allora mi sembrava solo un azzardo.

Io ero ad Alassio, in colonia coi Salesiani. Metti insieme 100 ragazzini di 10-13 anni tutti maschi e fagli respirare l'aria che si respirava in quel giorno. Era un'esaltazione totale, assoluta.
Non si parlava d'altro, non c'erano altri argomenti che il Mundial.
Vedemmo la finale nella sala comune. C'era la certezza di vincere, poi il rigore sbagliato da Cabrini a fine primo tempo sembrò preannunciare un terribile ritorno alla realtà. Poi Paolorossi, l'urlo di Tardelli, le braccia alzate di Altobelli, le mani sventolate da Pertini.
La vittoria.
Uscimmo fuori in cortile a urlare come forsennati, 100 ragazzini che sbraitavano peggio che invasati, abbracci, corse, urla, urla urla. Un'altra immagine: io che corro per il cortile e mi trovo faccia a faccia con uno con cui non è che corresse proprio particolare simpatia. Lui mi aspettava a braccia spalancate e bocca pure lei spalancata in un urlo di gioia. Ci siamo abbracciati urlando.

Ancora un anno dopo, ero in vacanza studio in Irlanda, c'era l'orgoglio di noi Italiani per essere i World-Champions. Se si faceva una partitella con coetanei di altre nazionalità, noi avevamo il dovere di mostrargli quanto fossero forti gli italiani a giocare a calcio e in effetti quella consapevolezza ci dava grinta, e vincevamo spesso.
Ci sentivamo davvero ammirati ed invidiati per quella coppa che la nostra Nazionale aveva vinto, eravamo convinti di incutere rispetto, qualcosa tipo "Sì, sono dei deficienti indisciplinati, ma sono Campioni del Mondo". Una roba così ci sembrava di leggere negli sguardi degli stranieri, che molto più probabilmente si fermavano alla prima metà della frase.

E ora uno degli artefici di quella storia esaltante se ne è andato.
Bearzot.

20 dicembre 2010

Rivelazioni

Riflessione un po' astratta e forse anche un po' scontata, ma che stamattina mi si è rivelata con particolare evidenza.
Più che l'assenza di problemi, a darti serenità è la consapevolezza di averli gestiti. Non dico risolti, quello sarebbe davvero ovvio, ma gestiti, contenuti, indirizzati verso una soluzione. Averli resi non più insormontabili. Ardui e impegnativi magari, ma superabili.
Sostituisce la speranza di non trovarsi di fronte a grane irrimediabili, con la tranquillità di essere in grado di non farsi sopraffare da esse.
Ed è un vantaggio non da poco: se non puoi sempre contare sul culo (di non avere grane), almeno sai che quando la sfiga ti rivolge il suo acuto sguardo (cit. Freak Antoni) almeno puoi pensare di cavartela comunque.

18 dicembre 2010

Alla faccia di Mendel

Io sono uno di quelli che alle lotterie non ha mai vinto niente di niente.
Non parlo di quelle milionarie (in euro) né di quelle miliardarie, ma pure di quelle paesane, di beneficenza, del circolo degli alpini, del bar Sport sotto casa.
Niente, mai vinto niente.
Tanto che ormai partecipo solo a quelle di beneficenza. Se devono essere soldi spesi senza ritorni, tanto vale che vadano utilizzati per qualche buon motivo.
E mia moglie idem.

Ieri sera invece siamo andati alla festa della squadra di volley di Carlotta. Presentazione delle squadre, discorso del presidente, musica, esibizione delle atlete e così via, le solite cose, compresa l'estrazione dei premi della lotteria sociale.
Beh, avevamo comprato (per i bambini) dieci biglietti. Abbiamo assistito con il solito atteggiamento disilluso lo sciorinarsi delle estrazioni a partire dal sedicesimo premio verso il primo.
Quando già finalmente iniziavo a pregustarmi la fine della serata e il ritorno a casa, è stato estratto il primo premio. E il biglietto era uno dei nostri!!!
Cioè, dei bambini.
Insomma, ho capito una cosa: il culo non è genetico.

Ecco qui sotto i fortunati vincitori abbracciati al loro premio: una fiammante Nintendo Wii già attrezzata di un paio di giochi. Le loro espressioni non danno neanche un decimo dell'idea della loro gioia:

15 ottobre 2010

Politica poco lungimirante

Copioincollo dal blog di Luca Sofri:
Sono a una riunione con le maestre della scuola elementare di mia figlia. Mi deprimo ogni minuto di più a sentire che quest’anno i tagli sul personale insegnante non permetteranno più uscite e visite esterne, costringeranno ad affollare le classi ogni volta che manca una maestra, impediranno di poter dedicare tempo e recuperi necessari ai bambini che ne hanno bisogno, e demoliranno il tempo pieno (“non è un tempo pieno, è una schifezza”, dice la maestra). E avanti così, e mi deprimo.
E poi mi arriva, negli aggiornamenti delle news sul telefono, questa:
“Roma, 11 ott. (Adnkronos) – ”Sono convinto che non destinare adeguati investimenti all’educazione e alla scuola sia una politica poco lungimirante, destinata a condannare un Paese all’impoverimento culturale, alla decadenza economica e sociale”. E’ quanto afferma il presidente della camera dei Deputati, Gianfranco Fini”
E vaffanculo, detto da padre

Mi associo, vaffanculo, anche da parte mia.

5 ottobre 2010

Il Nobel al Nobel

Qualche volta pare che i nomi che vengono designati a Stoccolma[*] siano frutto di non si sa bene quali imperscrutabili e cervellotiche elucubrazioni.
Questa volta invece, la notizia del nobel per la medicina è una di quelle che mi fanno un immenso piacere, segno di progressimo e capacità critica.
Non ne ho avuto bisogno e dico "per fortuna", ma da conoscenze dirette so bene che il vincitore di quest'anno, Robert G. Edwards è una di quelle persone che hanno contribuito a rendere il mondo più felice (o meno infelice, va).
Congratulazioni al premiato e ai premianti, dunque.
E la soddisfazione è ancora maggiore assistendo alle reazioni sdegnate dei soliti corvacci.

[*]In realtà il premio Nobel per la medicina viene assegnato da un comitato appartentente al Karolinska Institutet, che ha sede a Solna, vicino a Stoccolma

30 settembre 2010

Quattro anni

Nel frattempo a Spotorno, sulla collina davanti alla casa delle vacanze, è bruciato un bosco. Ora le piante sono ricresciute e la vegetazione si è ripresa il suo spazio.
Nel frattempo i bambini che non hai fatto in tempo a conoscere stanno crescendo.
E noi stiamo invecchiando.
Perché ti sei fermato?

23 settembre 2010

Un consiglio

Un consiglio che mi sento di dover condividere con chiunque:

2 agosto 2010

Origliando

In libreria, vagando tra gli scaffali, mi trovo vicino a due tizi che stanno commentando un libro. Uno è seduto su una poltrona e sfoglia un libro di (mi sembra di aver capito) informatica. L’altro gli sta accanto, il libro in questione l’ha già evidentemente letto e lo sta descrivendo all’amico in dubbio se comprarlo o meno:
“È un buon libro per iniziare. Ti dà almeno idea dell’argomento e spiega i concetti base.
Poi ci sono anche diversi suggerimenti per risolvere qualche problema da soli, in autodafé

Autodafé.

21 luglio 2010

Mummy, Daddy, wake up!

Questo è un video della BBC contro l'abitudine di inviare sms mentre si guida.
È terrificante perché è realistico.
Guardatelo, se avete il coraggio, poi non usiamo mai più il cellulare in auto.
Mai più.

Limitazioni

Sono convinto che le limitazioni siano fondamentali nell’espressione artistica. Hai cento pennelli possibili? Vade retro. Dammene tre. Via, va bene quattro.

Gipi, disegnatore, fumettista, ora anche piacevolissimo scrittore.

20 luglio 2010

D.F. Wallace - Tennis, tv, trigonometria, tornado

Quando mi imbatto in certe cose, come quelle di cui sto per parlare, mi viene puntualmente in mente una frase di una stralunata canzone dei Bluvertigo che diceva “Quello che so su alcuni argomenti viene dall'America”, frase che non calza proprio a pennello, ma che per me ultimamente è sempre più vera.
Il fatto è che, dopo essere riuscito a fare la tara ad alcuni atteggiamenti snobistitici del nostro continente, ho scoperto che gli americani sono molto più bravi di noi a raccontare le cose.
È fondamentalmente una questione di approccio. Se leggi un saggio scritto da un europeo, ti sembra che questo venga a dirti “Guarda che cose profonde che so, e guarda che considerazioni profonde ne riesco a fare”. Questo, al di là della vanità che sottintende e che a volte può anche essere del tutto giustificata, presenta un problema di fondo: se non sei già piuttosto competente sull’argomento, rischi di perdere il filo dei ragionamenti perché semplicemente ti mancano le basi. E a queste basi solitamente l’autore del saggio dedica poco spazio. “Sono banalità” sembra dirti, “non intendo dedicare tempo ed energia a raccontare queste ovvietà, ho premura di scendere in profondità per farti vedere che meraviglie ho scoperto”.
Solo che tu a scendere in profondità non sei ancora preparato, allora lo vedi scendere per conto suo sempre più lontano e sfocato, fino a perderlo di vista del tutto.
E allora il libro lo concludi per inerzia o lo chiudi per sempre.

Gli americani invece partono dal presupposto che il lettore non sappia neanche nuotare, altro che immersioni di profondità. Non si fanno neanche tanti scrupoli a trattarti da stupido o da ignorante, e questo di per sé potrebbe anche essere un po’ offensivo, soprattutto perché in genere se decidi di leggere un libro su un certo argomento, proprio da zero non parti. Insomma, almeno sai sguazzare.
Però, non sapendo:
- quanto bene sai nuotare
- a che profondità sai già immergerti
- e soprattutto da quanto tempo non lo fai
nel dubbio si parte da zero, ché un ripasso fa bene a tutti.
Così in genere le pagine iniziali sono un po’ noiose o superficiali, ma gli americani il loro pubblico non lo abbandonano mai, sanno tenerselo ben stretto, allora in genere i capitoli introduttivi sono zeppi di aneddoti, divagazioni divertenti o esempi curiosi, in modo che anche se proprio non si gratifica il lato più intellettuale del nostro cervello, almeno il divertimento è assicurato. E il libro rimane aperto.
L’approccio all’americana è quindi più vicino ad un “Ci sono cose bellissime che so e vorrei rendertene partecipe”, poi naturalmente ci sono ampie eccezioni e distinguo, da una parte e dall’altra, ma generalmente va a finire che è proprio così. E ne ho avuto esperienza in un sacco di ambiti, praticamente in ognuna delle mie brucianti passioni.

L’ultima conferma è stata leggendo questo libro di D.F. Wallace. Non si tratta propriamente di un saggio, ma di una raccolta di articoli scritti negli anni ’90 su argomenti piuttosto diversi tra loro. In America (sempre l’America…) giornalisti e scrittori scrivono certi articoli per certe riviste, lunghi decine di pagine, alcuni sono meravigliosi, alcuni sono tradotti in italiano e si trovano ogni tanto da qualche parte, ma in genere occorre affrontare la fatica dell’inglese. Ma ne vale a pena.
Comunque, questo libro raccoglie alcuni articoli di questo tipo a firma di DFW e spaziano su temi diversissimi tra loro, dalla Fiera Statale dell’Illinois a una lunga analisi dell’opera di David Lynch, dal rapporto tra narrativa e televisione al tennis professionistico.
Proprio quest’ultimo articolo è quello che più ho apprezzato. Si tratta di una specie di resoconto dei Canadian Open focalizzato sul tennista Michael Joyce.
Io non avevo mai sentito parlare di Michael Joyce e questo mi aveva tenuto lontano dall’articolo per parecchio tempo, poi, probabilmente a causa di Wimbledon, il mio interesse per il tennis è salito di un pochino e questo è bastato a spingermi ad affrontare l’articolo-sul-tennista-sconosciuto.
Ed eccolo lì, lo scrittore americano che ti prende per mano e ti accompagna in profondità:
In realtà DFW non dà affatto per scontato che io sappia chi sia, come gioca, quali sono i risultati di Michael Joyce. Anzi, parte proprio dal presupposto che io non lo conosca (lo dichiara nel secondo o terzo paragrafo, dove non ero neanche arrivato). In un certo senso vuole che io non lo conosca in modo da potere parlare in modo generico di quei tennisti incredibilmente forti che però non arrivano alla fama mondiale, perché non raggiungono la top ten. Cioè Wallace ci descrive quanto sia forte un tennista top 100 (Floyd raggiunse il 64° posto) perché i top 10, e ancor di più i numeri 1 sono addirittura indescrivibili.
E tramite lui ci racconta del tennis professionistico, della vita di questi atleti fatta di continui viaggi tra un torneo e l’altro, degli sponsor appiccicati sulle magliette a un tanto a partita, dell’infanzia dedicata alla racchetta. E in mezzo ci mette pure aneddoti sui campioni,i loro tic sul servizio, il loro aspetto visti dal vivo. E poi racconta della sua esperienza tennistica giovanile e la paragona a quella di quelli che poi sono diventati tennisti, il tutto nel suo solito stile fatto di brillantezza, divagazioni, smisurate note a piè pagina, dettagli, descrizioni.
Gli altri articoli sono in alcuni casi altrettanto piacevoli, in altri un po’ meno, in un caso anche molto seriosi, perché il DFW non era un comico e di tanto in tanto ci teneva a ricordarlo.

Minimum Fax ha pubblicato diverse raccolte di questi articoli di DFW in alcuni libri, tra cui il più famoso è forse Una cosa divertente che non farò mai più (il cui titolo è ripreso nel sottotitolo di questo), ma pure gli altri che ogni tanto mi trovo a leggere sono dei veri gioielli di giornalismo.

Purtroppo la brillantezza con cui scriveva non trovava eguale corrispondenza nella vita e alla fine questo geniale scrittore ha scelto il suicidio a 46 privandoci della sua preziosissima descrizione del mondo. Questa intervista, firmata da un simile geniaccio, fa un po’ luce su come si sentiva l’uomo David Foster Wallace lontano da quello che appariva nei suoi scritti. La sua descrizione degli effetti dell’astinenza da tabacco è da brividi.

19 luglio 2010

Alcune cose che ho visto in vacanza

Ho visto segni di esasperazione:

Ho visto che i bambini, quelli piccoli, non sono cambiati di molto e le care vecchie giostre riscuotono ancora un bel successo:


Ho visto gente bravissima suonare e ballare:

Ho visto del discutibilissimo senso dell'umorismo piazzato a decorare i giardini del paese (se non si vedesse bene: è una statua di E.T. con fazzoletto e moccolo al naso, intitolata ETCÌ, battuta che per conto mio non sarebbe neppure degna della Setttimana Enigmistica):


Ho visto sbalorditive marche di sandali ai piedi dei bambini:

Ho visto tanta, tanta gente:


Ho visto che la "musica in piazza" ora la fa un tizio da solo accompagnato da basi mp3. "Tanto vale che metta su un disco" è stato il mio commento burbero:


Ho visto i duraturi effetti della speculazione edilizia degli anni '60 e '70:


Ho visto che guardare i fuochi d'artificio con i bambini è come guardarli per la prima volta:


Ho visto che il premio più diffuso ai banchi dei Luna Park sono i cellulari:


Ho visto che gli spettacoli degli artisti di strada sono bellissimi:


Ho visto il sudore sulla mia pelle dopo la corsa:

2 luglio 2010

Poveri oroscopi

Questa è davvero troppo bella e merita decisamente un risveglio pre-vacanziero del presente blog [nota: vado in vacanza 2 settimane, per cui l'attuale situazione di stasi di queste pagine si prolungherà ulteriormente. Prometto però fin d'ora, a me stesso più che altro, che al rientro riprenderò a scrivere con un po' più di frequenza].
Pare che gli oroscopi abbiano un problema, che non è mica quello di essere delle inutili e assurde cazzate, figuriamoci, ma quello di essere minati alla base dalla cospirazione di quegli irresponsabili e antiscientifici che sono i ginecologi.
Già, proprio loro, che disponendo le nascite dei bambini con taglio cesareo, alterano la data di nascita dei futuri lettori di oroscopi sballandone così l'altrimenti scientifica attendibilità.

Giuro, queste cose non sono state solo pensate da qualche svitato, sono state scritte su un quotidiano nazionale. E da un deputato della Repubblica Italiana, per di più.
Evito i soliti discorsi su quali sarebbero i doveri di quella gente, ma vi assicuro che l'idea di essere governati da tali simili imbecilli mi mette i brividi. Allucinante.
Qui l'articolo (clic per vederlo ingrandito, l'originale è qui):


Scovato su Medbunker, un blog il cui tenutario è un medico e a questo punto inizia a pensarsi onnipotente.

18 giugno 2010

Saramago 1922-2010

Ciao José, e grazie di tutto.

8 giugno 2010

Pronostici

Interrompo un periodo di inattività sul blog per parlare di calcio.
Uhm...
Vabbè. Pare che sia una cosa imprescindibile negli USA e in effetti può anche essere divertente.
Ho fatto il mio bracket per i mondiali di calcio, cioè ho compilato il tabellone dei risultati di tutto il torneo.
Questo è quello che ne è venuto fuori (cliccando si ingrandisce):

Staremo a vedere (anche perché il risultato finale non mi sconfiffera un granché, ma così mi dice la mia sfera di cristallo...).

8 maggio 2010

La mamma ai playoff NBA

"Fate un disegno per la festa della mamma", dice la maestra.
Lorenzo, gonfio d'affetto, tributa alla sua mamma il massimo onore: una schiacciante vittoria contro i L.A. Lakers:
La mamma, mentre conduce 98 a 54 contro i Lakers, è colta nell'atto di eseguire una portentosa schiacciata.
(I pedanti si astengano dal commentare la grafia di "Lakers" sul tabellone...)

22 aprile 2010

Tanti auguri

Mezza Maratona di Nizza - un resoconto


Prima della partenza, ben prima, ho cercato in rete un po’ di informazioni che descrivessero la gara, tanto per farmi un’idea di quel che mi aspettava. Non ho trovato un granché, quindi ora faccio un resoconto abbastanza dettagliato non solo per i miei soliti appassionatissimi lettori, ma anche per chi in futuro fosse alla ricerca come me di qualche dritta.

Partiamo dai numeri: quest’anno era l’edizione numero 19 e alla partenza c’erano 8.000 persone, così dicono gli organizzatori. Un bel po’ di gente, quindi. Si tenga presente che le gare in programma erano 4:
-la mezza maratona
-la 10km
-la Nicoise (5km non competitivi per sole donne a fini benefici)
-un’altra versione della Nicoise (2,5km di marcia per tutti, bambini compresi)
-la P’tits Champions (2km per i bambini)
quindi non tutti gli 8.000 erano sulla stessa linea di partenza, ma nella zona di partenza sì, compreso pubblico e genitori dei bambini, per cui uno si aspetta che il casino e i relativi disagi possano essere tanti, tipo code, ingorghi, assembramenti, mancanza di supporto eccetera.
Invece devo dire subito che lo sforzo organizzativo è stato notevole ed efficace, c’era veramente tantissima gente dell’organizzazione e tutto filava piuttosto liscio. L’unico momento di spiacevole attesa è stato alle code davanti ai WC chimici, ma si è trattato di meno di 10 minuti. Chi non è avvezzo alle corse sappia che quella del WC è un esigenza fondamentale: ci si alza presto, si arriva con largo anticipo alla partenza, si aspetta, si è cercato di fare una colazione ragionevole. Poco prima della gara è quindi pressoché obbligatorio usare il WC, davvero per tutti.
Quindi quel po’ di coda è inevitabile e questa è stata del tutto accettabile.

La corsa: io grazie ai miei mirabolanti risultati del 2009 ho avuto il privilegio di partire nella seconda griglia, quella dietro ai top runner. Ancora una spiegazione per chi non è avvezzo: nelle gare si cerca di fare partire davanti i più veloci, in modo che non vengano intralciati dai corridori più lenti nell’ingorgo della partenza. Ovviamente i top runner, cioè quelli che sono lì per giocarsi la vittoria, partono con un piede sulla linea di partenza, con solo il percorso di fronte a loro. Poi vengono costituite delle “gabbie” a cui hanno accesso i corridori secondo le loro potenzialità: se sei un corridore da 16km/h puoi stare davanti a chi corre ai 13km/h in modo da non trovartelo tra i piedi appena partito.
Per questo creano le gabbie che sono più o meno numerose a seconda dell’organizzazione (a volte non ci sono proprio, a volte ce n’è 3 o 4).
Per accedere a queste gabbie occorre avere corso nell’anno appena trascorso una gara sotto i tempi prefissati. A Nizza le griglie erano due: una per i corridori sotto l’ora e 17 (i top runner) e l’altra per quelli sotto l’ora e 25, poi tutti gli altri (la “masse”). Per le donne i tempi sono diversi (1h30 per la prima gabbia e 2ore per la seconda).
Come dicevo io sono entrato nella seconda griglia che significa che quando hanno levato le transenne (perché naturalmente le gabbie vengono aperte poco prima dello sparo), mi sono ritrovato vicinissimo alla linea di partenza, cosa che non mi era mai successa.
Allo sparo sono quindi partito agevolmente di corsa, senza problemi di ingorghi o tamponamenti, anzi, magari sono stato io ad essere di intralcio a qualcuno, ma non me ne sono accorto.

La prima parte del tracciato è molto bella. Si snoda per il centro di Nizza, con parecchie curve e alcuni lievi saliscendi che a me piacciono più che un percorso totalmente piatto. Trovo che diano varietà all’azione e quelle brevi discese sono dei veri toccasana per i polmoni.
I primi 10km si svolgono assieme alla gara dei 10km appunto, quindi mi sono trovato a correre assieme a gente che aveva come obbiettivo una distanza metà della mia. Delle lepri, insomma.
Questo, unito ad una buona condizione e alla piacevolezza del tracciato mi ha portato a passare i 10km con un gran tempo (per me) 38’38” che proiettati su tutto il percorso avrebbero significato 1h21’30”, ampiamente sotto il mio record.
E invece.
La seconda parte della gara è completamente diversa dalla prima: totalmente dritta e piatta, 5,5km sulla Promenade lungomare verso l’aeroporto e 5,6km al contrario sullo stesso tratto. Il percorso noiosissimo e (soprattutto) l’avere fatto un po’ troppo il fenomeno nella prima parte, mi ha portato a rallentare decisamente.
In conclusione ho tagliato il traguardo a 1h23’19”, che tutto sommato va bene. Ci tenevo a stare sotto l’ora e 24 (per i non avvezzi: 1h24 sulla mezza maratona significa una velocità media di 15km/h. Volevo starci sopra) e quindi ho ampiamente rispettato i propositi già abbastanza ottimistici rispetto all’allenamento un po’ scarso che avevo.
Però ammetto che rosico per come ho corso i primi 10km, mi sentivo davvero in gran forma. E rosico per i parecchi atleti che mi hanno superato tra il 15km e il ventesimo. Poi nell’ultimo ne ho ripresi un paio, ma sono magre consolazioni.
E più che altro mi spiace avere fatto così tanta fatica nella seconda metà della gara, mi è sembrato di non godermela più, di soffrire e basta.
Beh, la prossima volta sarò più saggio. Promesso.

Ancora una doverosa considerazione sul tracciato. Durante la prima parte, al 9km si incrociano i “ritardatari” al 5km, mentre durante la seconda parte si ha la possibilità di vedere i top-runner in azione: uno spettacolo della natura!
In conclusione: una bella corsa in una splendida cornice. La seconda parte del percorso non è dispiaciuta solo a me, è diffusamente detestata almeno a quel che ho sentito commentare, ma gestendola meglio di come ho fatto io probabilmente può rivelarsi ben più piacevole.
Ripeto che l’organizzazione è ottima.
Il pacco gara è miserello, solo una maglietta, ma di buona marca. Forse meglio che tanta paccottiglia che ti rifilano in genere.
All’arrivo, a chi arriva in fondo, viene consegnata pure una bella medaglia. So che per qualcuno è molto importante.

E infine faccio anch’io come Linus: pubblico foto a testimonianza dell’impresa:

16 aprile 2010

Prossimi passi

Domenica vado a fare questa cosa qua:
Mezza maratona in giro per Nizza. Per chi conosce la città, questo è il percorso:


E poi... Cafè de Turin:
Invidiatemi pure.

Raimondo

La sua comicità era sottilmente geniale, elegantissima e perfettamente tagliente. È davvero un peccato che non ci sia più.
Quello che più mi turba è questo stillicidio di persone appartenenti al mondo della mia gioventù che se ne sta andando. È nell'ordine delle cose, lo so, ma mi turba.
Intanto, ciao Raimondo.

Il miracolo della vita

Ne ho tre, quindi a questa cosa ci ho pensato molto intensamente già parecchie volte. Parlo di figli e parlo dello svilupparsi di un bambino a partire da un ovocita ed uno spermatozoo.
All'inizio è solo una cellula, una pallina piena di robette strane e complicate.
Alla fine è un essere umano con dita, occhi, muscoli, cervello, naso, fegato e cistifellea, ginocchia e lingua, tendini e tiroide e orecchie, chiappe e unghie.
Il processo più inconcepibilmente complicato a cui ci sia data la fortuna di assistere. E gira tutto da solo, come fosse, e lo è, la cosa più naturale del mondo.
Questa animazione mostra in quattro minuti tutti i nove mesi della gestazione, dal concepimento al parto. Guardatelo fino alla fine, il momento del parto è da accapponare la pelle.


12 aprile 2010

C.McCarthy - Suttree

Ammetto, confesso che questo libro l’ho finito a fatica e con la voglia che finisse in fretta, di passare ad altro.
E di aver pensato più volte di lasciarlo perdere.
Poi però non l’ho fatto e come con le grandi fatiche che si riescono a portare a termine, sono contento di averlo letto tutto e sono convinto che questa lettura mi abbia dato ben più di altri libri divorati in un baleno.
È un libro pesante questo, descrizioni lunghe e dettagliatissime e avvenimenti tanto realistici da apparire banali se non addirittura noiosi.
Come la vita.
È difficile pure dirne la trama, di questo libro. In sostanza si tratta di un periodo di alcuni anni della vita di tal Cornelius “Bud” Suttree, uomo disincantato e concreto che assieme a suoi pari vive alla giornata ai margini della società nei dintorni di Koxville. I suoi compari, amici o semplici compagni nel viaggio della vita, sono barboni, alcolizzati, svitati, accattoni, prostitute e tutto quanto vi sia di più umanamente tangibile nelle periferie delle città e delle esistenze in genere.
Ogni pagina di questo libro è dipinta con colori talmente vividi e dettagliati da trascinarti di forza in quelle esistenze misere ma intensissime, a fianco di un uomo dall’aspetto ruvido ma dalla volontà fragile e riprovevole, capace poi di enormi e disinteressati slanci di generosità e di adattamento indifferente alle situazioni peggiori, in balia dell’altalena della vita che con i suoi alti e bassi lo porta a destreggiarsi tra la miseria e il lusso pacchiano di chi si trova in tasca all’improvviso troppi soldi per essere in grado di conservarne appena per il pasto del giorno dopo.
Un uomo vero. Tramite il quale forse McCarthy ha l'ambizione di raccontarci l'Uomo.
O forse no. Come sempre questo autore non fornisce mai didascalie, non svela mai il proprio programma. Ti presenta la vita, interpretala tu.

Sinceramente un libro come questo lo consiglio di cuore, ma con un grosso avvertimento: è un mattone. Però si sa, non sono mai i percorsi troppo semplici e frequentati a portarci nei posti migliori. Affrontatelo, percorretelo tutto e raggiungete la cima. Voltarsi indietro a guardare il cammino percorso sarà un’esperienza impagabile.

30 marzo 2010

Saltar fuori

James Randi è stato (ed è tutt’ora, e ancora di più, vedi dopo) un mito della mia gioventù. Ero in quell’età in cui è abbastanza normale essere ancora affascinati dal paranormale, dai poteri della mente, dalla magia e da tutte quelle cose lì che ad avercele farebbe davvero comodo. Telecinesi e ipnotismo erano le mie favorite. La possibilità di prendermi una lattina di coca-cola dal frigo senza alzarmi dal divano o la capacità di far fare a qualcuno quel che volevo io (ero in età puberale, per cui ometto gli usi sconci che ne avrei fatto…), erano cose per cui avrei fatto volentieri un patto col diavolo.
Ci credevo. In un modo un po’ scettico e perplesso, però in fondo in fondo ci credevo, pensavo che tutto sommato fosse vera quella storia del 10% dei poteri del cervello e che a sviluppare bene anche solo parte di quel fantomatico 90% si sarebbero potuti avere poteri incredibili.
Non che fosse alla mia portata, ma che qualcuno ce l’avesse fatta non avevo motivo di dubitarne.

Poi mi sono letto “Viaggio nel mondo del paranormale” di Piero Angela e ho raggiunto l’illuminazione. Il libro smonta quasi tutte le credenze nel paranormale e dintorni con una precisione e una capacità di convincere straordinaria.
Credo che sia una mia attitudine mentale, ma ben lungi dall’essere deluso dal vedere crollare tutte le mie speranze di diventare un supereroe, mi sono entusiasmato nello scoprire che la realtà è molto più semplice e che i sedicenti uomini dai poteri straordinari sono nella stragrande maggioranza dei casi dei ciarlatani. E che chi ci crede è un pollo.
È difficile da spiegare e non vorrei essere preso per un sempliciotto dalla mente ristretta, ma secondo me, sapere che il mondo è come sembra che sia, è molto più bello di una versione in cui ci sono delle regole, ma queste regole vengono qua e là violate senza motivo apparente e senza riproducibilità. Sto naturalmente parlando di leggi naturali, fisica, chimica, biologia eccetera. Mi piace che ci siano delle regole universali e che solo grazie a queste si sviluppi tutta la meravigliosa diversità delle cose del mondo, senza trucchetti o eccezioni.
Vabbè, quel libro lì mi spiegò che i trucchi e le eccezioni alle regole del gioco non esistono, sono solo delle truffe. E questo mi piacque tantissimo. E mi spiegò pure che per smascherare queste truffe, gli indagatori più indicati non sono gli scienziati, anzi. Gli indagatori migliori sono gli illusionisti, i prestidigitatori. Perché i trucchetti che usano i sedicenti paragnosti non sono altro che trucchi alla Tony Binarelli, alla Silvan. E allora ci va uno del mestiere per smascherare il trucco. Altroché fisici o chimici.
Quel libro è scritto da Piero Angela e uno dei protagonisti principali è tal James Randi, un uomo che, prima prestidigitatore di un certo successo, ha poi dedicato la vita alle indagini sul paranormale, smascherandone di tutti i colori. È quello che ha smascherato Uri Geller, tra gli altri.
È quello che ha messo in palio un milione di dollari per chi fosse in grado di dimostrare di avere qualche potere paranormale. Quel milione di dollari è ancora lì, naturalmente.
È un mio mito dunque e da un sacco di tempo.
E ora lo è ancora di più: alla tenera età di 82 anni, ha fatto outing.
E anche questa è una di quelle cose che mi piace senza sapere bene perché.

19 marzo 2010

Scrittori ed ipocriti - Uno sfogo

Non so bene perché, ma a me Aldo Busi è sempre stato simpatico. È una cosa epidermica, senza motivazioni forti, più televisiva che letteraria: ho letto poco di quel che ha scritto.
Probabilmente è a causa della sua sfrontata e provocatoria indole, il suo essere sempre pronto ad andare oltre, ben al di là del comune “sopra le righe”, fatto però in un modo che, pur finendo inevitabilmente in caciara, perché i programmi televisivi si, alcuni programmi televisivi, si nutrono di caciara, ha sempre un fondo arguto, intelligente. Provocare per smascherare le ipocrisie, per mettere in imbarazzo i perbenisti, stanare i benpensanti agitandogli davanti al muso gli argomenti che più li eccitano.
A ben pensarci la mia simpatia nei suoi confronti risale a un secolo fa, quando Corrado Augias lo definiva, col suo fare sornione, “Il più grande scrittore italiano vivente” e lui ballava una specie di flamenco indossando scarpe rosse col tacco.
Poi francamente non l’ho più seguito se non casualmente. Leggo che ha partecipato ad Amici in qualità di giudice e questo potrebbe bastare a farmi cambiare idea su di lui, ma probabilmente l’ha fatto col suo modo di fare sfacciato e magari mi sarebbe piaciuto pure lì. Non so.
Quello che so, il motivo del post, è che è stato radiato da tutte le trasmissioni della RAI per avere offeso nientemeno che il Papa e Berlusconi. Il primo, che si scaglia contro gli omosessuali, lo ha accostato agli omofobi che altro non sarebbero, secondo lui, degli omosessuali repressi pericolosi per la società.
Del secondo, Berlusconi, si è permesso di dire che se non abbassa le tasse con le due aliquote del 23 e 33 percento, il suo governo non è servito a nulla.
Apriti cielo, naturalmente.
Quegli imbecilli servili dei dirigenti RAI non hanno perso tempo, e in considerazione di tali disdicevoli fatti, hanno deciso per la radiazione dal programma (L’Isola dei Famosi) e dagli altri programmi RAI.
Beh, io sono uno sfigato che paga il canone e ritengo che per esempio, sentire un ministro della Repubblica Italiana dire che quelli che vogliono che i crocifissi vengano tolti dalle scuole e dagli altri luoghi pubblici (io per esempio) “possono anche morire” ma loro della sentenza della Corte Europea se ne fregano e non li toglieranno mai, mi sembra molto più grave.
Tanto per dirne una.
Ce ne sono a montagne di schifezze del genere negli archivi RAI, io non ho voglia di ravanarci dentro perché mi girano le balle ogni volta, ma i protagonisti sono ancora tutti lì in prima serata.
Beh, io immagino che Aldo Busi possa fare anche a meno delle comparsate in TV, anche se sono certo che un qualche danno non potrà non venirgliene. E sono pure convinto che del “servizio pubblico” televisivo ormai rimanga davvero ben poco, vittima com’è ormai di pressioni, lottizzazione, ingerenze, cortigianerie e pochezza dilagante. Però io quei soldi dell’abbonamento li pago, non per scelta, ma per imposizione. La RAI la guardo pochissimo, ma ciononostante devo versare un obolo annuale a suo favore per finanziare simili schifezze e allora sogno i sogni più cruenti nei confronti di quella gente che è riuscita a ridurre in questo stato quello che potrebbe essere un mezzo ricchissimo.
In altre parole: vadano a cagare, una volta di più.

Per il resto, per quel che può servire, arrivi la mia massima solidarietà ad Aldo Busi. Ne approfitti per tornare ad essere “il più grande scrittore italiano vivente”.

Alice in Wonderland

Il cinema 3D è davvero il fenomeno del momento. È come andare sulle giostre, si viene catapultati per un paio d’ore in un mondo fantastico pieno di colori e cose strane, con la sensazione di esserne un po’ più parte di quando si guarda un film normale.
Cioè, quella cosa (entrare in un mondo di fantasia) capita anche con i normali film, solo che col 3D capita un po’ di più. Non è perfetto, comunque sei sempre spettatore passivo e quella cosa lì che vedi è chiaramente finta, ma è un ulteriore passo in avanti verso il realismo perfetto.
Un po’ come passare dal bianco-nero al colore o dalla televisione al cinema.
E così, dopo aver sperimentato Avatar, non ho potuto rifiutarmi di portare i pargoli a vedere Alice in wonderland. Io volevo andarci per il 3D, appunto, e per la regia di Tim Burton, loro per il 3D e per il cinema e per Walt Disney e per Alice e per i pop-corn e per gli occhialoni.
Beh alla fine tutti contenti, a parte per i pop-corn che non c’erano.
Il film è un buon compromesso tra l’immaginismo un po’ gotico di Tim Burton e le esigenze infantili di Walt Disney, per cui alla fine può andare bene per grandi e piccini con una piccola precedenza a questi ultimi. Almeno i miei 2 (6 e 8 anni) ne sono usciti entusiasti, mentre io dico un poco deciso “sì, carino”.
La storia è quella di una sorta di Alice nel paese delle meraviglie 2 – il ritorno, cioè un’Alice 20enne che vive ossessionata dal sogno (che in realtà è un ricordo quasi del tutto rimosso) della sua avventura infantile in un epoca vittoriana zeppa di convenzioni a cui lei molto malvolentieri si adatta. Fino al traboccare del vaso, costituito dalla proposta di nozze di un repellente lord pretendente a cui lei, secondo il parere di tutti, dovrebbe di buon grado acconsentire.
Alice questa volta non ce la fa, allora scappa dal pretendente inginocchiato e va a finire nel buco sotto l’albero dove era iniziata l’avventura da bambina e torna in quel mondo là, fatto di pozioni che la fanno rimpicciolire e ingrandire, sorrisi di gatti, brucaliffi, rose parlanti e soprattutto il cappellaio matto, che impersonato da Johnny Depp è quasi un protagonista del film.
In quel mondo si svolge tutta la parte veramente fantastica del film con la regina di cuori diventata una tiranna ancora più irascibile che ad un tempo (“tagliatele la testa!”) e Alice che chiaramente si schiera dalla parte dei buoni nel tentativo di spodestarla.
Ripeto, per i bambini è entusiasmante, come un cartone, ma ancora più bello, perché probabilmente è ancora più facile entusiasmarsi per l’eroina se questa è reale e non disegnata e se tutto è fatto bene, come riescono a fare i draghi volanti nel cinema attuale, allora non devi neanche più fare una gran sospensione dell’incredulità. Ti siedi, inforchi gli occhiali e sei sulla giostra.
Qui sotto l’immagine dei miei 2 pargoli poco prima che spegnessero le luci in sala. Già questo vale buona parte del prezzo del biglietto:

Idee regalo

Effettivamente è un po’ che latito da queste lande.
Il fatto è che quel che sto scrivendo riguarda sostanzialmente musica, allora lo pubblico sull’altro blog.
Segnalo solo che, oltre alle solite cose da maniaco della musica sconosciuta, ho iniziato a suggerire qualche disco che dovrebbe piacere un po’ a tutti. Il principio guida è quello della “regalabilità”, cioè dischi che si potrebbero regalare a persone di cui si sospettano buoni gusti musicali senza pretendere che condividano le proprie perversioni. Dischi gradevoli nel senso più ordinario del termine.
Poi nel concetto di regalabilità vale pure il discorso che chi riceve l’omaggio non ce l’abbia già, per cui forse non sono proprio conosciutissimi, se no tanto vale.
Ovviamente il regalo può valere anche per se stessi.
Per ora ho parlato di:

1 marzo 2010

Piccoli sportivi crescono

Ieri sono finite le Olimpiadi invernali e ancora ho nelle orecchie i discorsi e le polemiche per gli scarsi risultati degli atleti italiani (per chi non le avesse seguite: una sola medaglia d’oro contro le 5 di Torino 2006) che non sarebbero poi tanto preoccupanti se non seguissero di qualche mese la figuraccia dei mondiali di atletica di Berlino dove di medaglia non ne abbiamo raccattata neanche una.
Si parla di cultura sportiva, si parla di strutture, si parla di scuola, si parla di scarsa propensione alla fatica. Si parla pure di Facebook (Alberto Tomba: “oggi i ragazzi… tutto il tempo su facebook… io non vedevo l’ora di uscire…”).
I discorsi sono tutti veri e probabilmente individuano alcune reali cause dello scarso successo dei nostri colori in ambito sportivo, ma ho come l’impressione che siano focalizzati un po’ troppo sugli atleti e troppo poco sulle strutture che stanno loro alle spalle. Dietro ad un atleta che taglia per primo il traguardo in una competizione mondiale c’è una struttura enorme, fatta di tecnici, di strumenti, di dirigenti, di impianti sportivi, di competenze e a mio avviso il vero nodo della questione è proprio da quelle parti e inizio a temere che sia dovuto allo stato di marciume che sta rivelandosi in ogni struttura italiana, da quelle politiche a quelle imprenditoriali, a quelle organizzative,… dove ogni dinamica è regolarmente impostata sul clientelismo, sulla raccomandazione, sulla bustarella, sul favore o sulla puttana di turno.
E in un sistema dove non si premiano i reali meriti, ma solo le convenienze clientelari, non riesci a creare dei veri vincitori. Nello sport soprattutto, dove la competizione è tutto e alla fine barare è troppo difficile, almeno fuori dai nostri confini.
Invece tutto il mondo dello sport continua a puntare il dito al di fuori di sé, alla scuola che non valorizza l’ora di ginnastica, ai giovani che non praticano sport al di fuori del calcio.

Beh, ieri ho portato Carlotta al suo primo raduno di mini-volley, la prima uscita al di fuori dei suoi “allenamenti” (per chi non la conosce: ha 6 anni, per questo metto le virgolette). Durante questo raduno (concentramento lo chiamano) ha potuto giocare con sue coetanee di altre squadre.
Il tutto si è svolto in una palestra e lo spettacolo a cui ho assistito mi fa proprio pensare che i discorsi sui giovani che non praticano sport siano delle gran balle.
Innanzitutto l’incontro non era solo per le seienni, ma a tutte le categorie del minivolley, che va fino ai dieci anni, più o meno. Le squadre coinvolte erano sei o sette, ognuna con almeno 15 bambini, per un totale di più di cento atleti.
Il campo (una palestra) è stato diviso in 9 piccoli campi di dimensioni differenti a seconda dell’età dei giocatori e poi sono stati organizzati 9 tornei di 4 squadre che si svolgevano ognuno su un campo diverso.
Per ogni torneo c’era un arbitro, cioè un ragazzino o ragazzina di età appena maggiore (14-15) anni che seguiva le partite con fare professionalissimo.
Ogni squadra aveva il suo allenatore, altro ragazzo o ragazza un poco più grande che seguiva il gioco dei bambini (per quelli più piccoli, che giocano una cosa che si chiama “palla rilanciata”, l’impegno è costante: devono continuamente spostarli per il campo per fargli tenere la posizione, spiegargli continuamente cosa fare, coordinare le rotazioni…).
Poi alcuni coordinatori che si occupavano di organizzare i turni degli incontri e seguire i bambini nelle loro necessità, difficoltà, paure, esigenze (“devo andare a fare la pipì” è una frase più che ricorrente).
Poi il “capo della baracca”, una ragazza di meno di trent’anni che coordinava il tutto.
Tutto questo si è svolto in una palestra in provincia, spontaneamente e con grande entusiasmo da parte di tutti, compresissimi nei loro ruoli. Io assistevo allo spettacolo dall’alto e vi assicuro che vedere un tal movimento di palloni, bambini che giocano, tutti con le loro divise, capelli raccolti, impegno, gioie e delusioni per più di due ore, è stata un’esperienza da aprire il cuore, veramente bellissimo.
Purtroppo non ho fatto foto, per cui non riesco a fare vedere com’era esattamente il colpo d’occhio. Comunque immaginate una cosa del genere vista dall’alto e con ancora più partecipanti:

Tra una partita e l’altra cercavo di vedere la cosa con occhi un po’ più distaccati di quelli del papà e riflettevo che se avessi visto una cosa del genere in Germania o Scandinavia, sarei tornato pieno di ammirazione a raccontare quanto sia profondamente radicata e ben organizzata la cultura sportiva in quei paesi meravigliosi. E poi sì che vincono medaglie a bizzeffe, loro!
E la scorsa settimana Lorenzo aveva partecipato ad una cosa del tutto analoga, sia come organizzazione che come entusiasmo, incentrata sul basket.

Tutto questo solo per raccontare un po’ di fatti miei, ma soprattutto per smentire il fatto che in Italia non ci sia cultura sportiva giovanile. Questa c’è eccome, e c’è con tutto l’entusiasmo tipico sia dei bambini che dei loro giovani genitori. Quello che manca è poi la capacità dei soloni dello sport italiano di raccogliere questo preziosissimo “materiale umano” e di farne degli atleti come si deve.
Tanto per non dare sempre la colpa agli atleti, insomma.

Altroché Indignazione

Ho già detto che considero Philip Roth uno dei più grandi scrittori viventi, e che meriterebbe una consacrazione ancora maggiore di quella che già gli viene tributata.
La stima e quel genere di affetto che si può provare per uno scrittore non mi porterebbe comunque a condividere necessariamente le sue opinioni politiche, religiose, economiche o sportive. A giudicarle notevoli e a leggerle magari con interesse sì, ma a condividerle necessariamente non direi proprio.
Così è stato con un certo stupore che avevo letto di una sua dichiarazione fatta durante un’intervista ad un giornalista di Libero (Libero!! Philip Roth intervistato da Libero mi pareva già una notizia curiosa) in cui si dichiarava completamente deluso da Barack Obama.
Così diceva:
«Obama? Una grandissima delusione Sono stato fra i primi a credere in lui, ad appoggiarlo, ma adesso devo confessare che mi è diventato perfino antipatico». Philip Roth, forse il più illustre dei narratori americani d’oggi, autore di capolavori quali Lamento di Portnoy, Pastorale americana, Zuckerman scatenato e, da poco uscito in Italia, Indignazione, esprime con forza, per la prima volta, il suo giudizio fortemente negativo sull’attuale Presidente Usa. Ci tiene a farlo subito, nella nostra conversazione telefonica.

(Intervista di Tommaso De Benedetti su Libero il 22/11/2009)

Mi sembrava un giudizio piuttosto tranciante, ma sai, gli scrittori sono persone particolari, a volte scorbutiche, spesso stizzose come primedonne. E poi è noto che Obama abbia più consensi all’estero (in Europa in particolare) che negli U.S.A. E poi l’America è lontana, non abbiamo la giusta percezione delle cose, per cui può anche darsi.
Insomma, per quel che possa valere la mia opinione su Obama, potevo recepire l’opinione di Philip Roth come un punto di vista illuminante, interessante appunto.
Poi viene fuori che è una balla, Philip Roth non ha mai detto quelle cose. Non ha neanche rilasciato quell’intervista:
Per caso, è insoddisfatto anche da Barack Obama? Da un’intervista a un quotidiano italiano, Libero, risulta che lo trova persino antipatico, oltre che inconcludente e assopito nei meccanismi del potere.
Ma io non ho mai detto una cosa del genere. E’ grottesco. Scandaloso. E’ tutto il contrario di quello che penso. Considero Obama fantastico. E trovo che l’attacco che gli stanno sferrando i repubblicani è molto simile a quello subito da Roosevelt al suo primo mandato. E’ la destra più stupida mobilitata da Sarah Palin. Agitano la bufala dell’atto di nascita che dimostrerebbe che è nato in Kenya. E trovano ascolto. Sotto c’è il problema della razza, della pelle. Sono molto seccato per queste dichiarazioni che mi vengono attribuite: non ho mai parlato con questo Libero. Smentisca tutto. Ora chiamo il mio agente.

Chiama il suo agente, che gli filtra tutti i contatti: nell’agenda delle interviste passate e future non risulta nè Libero nè il nome dell’intervistatore.

(intervista a Philip Roth di Paolo Zanuttini pubblicata sul Venerdi’ di Repubblica il 26/02/2010)

E allora una piccola cosa che poteva essere interessante si rivela l’ulteriore schifosa dimostrazione di come stia funzionando l’informazione dalle nostre parti. Non c’è più alcuna vergogna, pur di tirare acqua al proprio mulino (per un percorso abbastanza tortuoso poi: Obama=Partito Democratico U.S.A.=Più di sinistra che di destra=Sgradito al Centro-Destra italiano) si commette qualsiasi falsità, si viola ogni principio di correttezza.
Disgustoso.
Salvo poi accorgersi che a questo disgustoso "peggio" non c’è limite:


PS: la pagina di Libero in cui compariva l'intervista è stata rimossa. Peccato (per loro) che ne rimanga traccia nella cache di Google (io me ne sono pure fatto una copia, sai mai).

26 febbraio 2010

Con le lacrime agli occhi

Sto leggendo un libro, Suttree di Cormac McCarthy. Non sono ancora sicuro, ma mi sa che è magnifico. Comunque ne dirò quando l’avrò finito.
Mi preme solo di condividere un momento di ilarità devastante che mi ha provocato. L’ho letto a letto con la lucina da lettura, mia moglie dormiva e io avevo letteralmente le lacrime agli occhi dalle risate, faticavo a trattenermi dal ridere a crepapelle.

L’ambientazione: è l’interno di una caffetteria americana, di quelle con i tavoli in fila e divani a formare ambienti separati, tipo quella di Pulp Fiction o dell’immagine qui sopra.
I personaggi sono dei vagabondi beoni e perditempo, quasi dei barboni, delle specie di Bukowski senza talento.
Lo so, come argomento è un po’ scatologico e questo forse rivela qualche aspetto dei miei gusti, però ci va del gran talento a scrivere anche queste cose, e McCarthy ne ha da vendere.
Vabbè, leggetelo:

J-Bone lo guardava con un’aria folle. Si piegò un pochino, come per alzare una gamba. Strabuzzò gli occhi. Un’enorme scoreggia squarciò l’aria della tavola calda zittendo il tintinnio e l’acciottolio di tazze e posate dell’ora di pranzo, sbalordendo i clienti, precipitando il locale nel silenzio. Boneyard si alzò all’istante e andò a mettersi su uno sgabello al bancone, guardandosi alle spalle atterrito. Ai fornelli il greco arretrò vacillando, una mano sulle fronte. Hoghead barcollò tra i tavoli boccheggiante, l’angoscia dipinta in volto mentre la signora del séparé accanto si alzò e li guardò dall’alto con un’aria cadaverica e si diresse alla cassa.
Hiii, cantilenò J-Bone dentro le mani a coppa.
Cristo santo, disse Suttree , alzandosi con piatto e bicchiere.
Ti sei fatto male Jim?, disse forte Boneyard schermandosi con il dorso della mano.
Caspita, fece Hoghead seduto al bancone. Mi sa che qualcosa è venuto a tirare le cuoia nelle tue budella.
Il greco lanciava occhiate truci verso il retro del locale. Rimasto solo nel séparé, J-Bone arricciava il naso. Un minuto dopo strisciò fuori tra i tavoli. Gesù bambino, disse. Mi sa che manco io la reggo.
Vattene di qua.
Sto cercando di mangiare, Jim.
Gesù, disse J-Bone, mi sa che mi si è ficcata nei capelli.
Andiamo via, disse Boneyard.
Suttree considerò quelle facce ridenti. Un secondo, lasciatemi finire, disse.

12 febbraio 2010

12

Un film bellissimo, un film russo di un paio di anni fa. Si intitola semplicemente “12”, e dodici sono i giurati chiusi nella palestra di una scuola con il compito di emettere una sentenza sul caso di un giovane ceceno accusato di omicidio.
La vicenda è tutta qua, non c’è altro (dovrebbe essere il remake di La parola ai giurati del 1957, ma la struttura è decisamente diversa).
Il caso pare inizialmente banale: il ragazzo (ceceno si badi, praticamente uno straniero per i giurati moscoviti) è palesemente colpevole, con l’aggravante di avere ucciso un benefattore, il padre adottivo che lo teneva con sé in casa.
La sentenza però deve essere necessariamente emessa all’unanimità e quando si svolge la votazione iniziale tutti si sorprendono nello scoprire che uno di loro è sfavorevole alla condanna. Questo significa affrontare una discussione invece che raggiungere la sentenza immediata come si auspicavano tutti.
A partire dal dubbio instillato da quell’unico giurato, si articola tutto il seguito del film con il confronto a volte drammatico, a volte esilarante tra i votanti che poco per volta mettono a nudo, assieme alle proprie convinzioni sul caso, anche aspetti diversissimi e profondi della propria personalità.
Come dicevo la vicenda si svolge in una palestra, a causa dei lavori di ristrutturazione del tribunale che rendono inagibile l’aula solitamente dedicata alle riunioni dei giurati, e questo permette di conferire un po’ di dinamicità alle scene e alla recitazione (superba) dei protagonisti.
Di tanto in tanto si hanno dei flash-back che illustrano momenti dell’infanzia dell’imputato, sprofondato negli orrori della guerra cecena. Altre divagazioni rispetto alla scena principale mostrano l’imputato in cella in attesa del giudizio e la vista di lui in attesa nervosa mentre i giurati discutono, conferisce ulteriore drammaticità al film.
A parte queste due divagazioni però, tutta la storia potrebbe benissimo essere un soggetto teatrale, con i personaggi che uno ad uno diventano protagonisti di intensissimi monologhi e dialoghi serrati conditi a base di razzismo (l’accusato come dicevo è ceceno e la vittima un ex militare russo), debolezze, orgoglio, intolleranze, stanchezza, fierezza… per una durata di quasi tre ore il cui peso però non si fa minimamente avvertire grazie ad una sceneggiatura sempre tesa e coinvolgente.

Ne avevo sentito parlare molto bene, ma da quando è uscito non sono stato in grado di trovarne una copia da nessuna parte. Sono poi riuscito a beccarlo sulla programmazione di Sky e non so se nel frattempo si sia reso più disponibile.
Prendetene nota però, e se vi capita di poterlo vedere non perdete l’occasione, ne vale davvero la pena.

10 febbraio 2010

Aiutarli nel loro paese

C’è una frase che mi dà particolarmente sui nervi quando le chiacchiere a tavola vanno oltre la meteorologia e si dirigono in territori un po’ più ostici o appassionanti, quali i temi sociali, la povertà, l’immigrazione. Questa frase assume dettagli ogni volta diversi, ma si riassume grossomodo nello standard “Io sì che sono per aiutare quella gente, ma a casa loro!” e giù a condire questa storia con considerazioni quali “evitare di essere sradicati dal proprio paese”, “i legami culturali e famigliari”, “le proprie usanze” e così via.
Tutti discorsi che hanno pure la loro fondatezza, ci mancherebbe. Quello che mi dà sui nervi è che, ad essere ottimisti, nel 95% dei casi si tratta di pura ipocrisia che non nasconde altro che un “Se se ne stanno là a casa loro, sono altri a doversene occupare, il Governo, la CRI, l'ONU... E io non sono costretto a sentirne la puzza”.
Questo atteggiamento mi dà sui nervi, dicevo, ma più che altro perché quell’ipocrisia si nasconde molto bene dietro un reale paravento. Tutte le giustificazioni che si danno sono verissime, il modo migliore per aiutare qualcuno è quello di riuscire a migliorare la sua condizione nel luogo in cui vive, sia essa una questione politica (dittature, guerre civili) o economica (pura povertà), perché questo miglioramento potrebbe essere un volano in grado di innescare circoli virtuosi capaci di risollevare le sorti di intere aree geografiche e alla fin fine evitare, o anche solo ridurre, la necessità di emigrazione verso paesi stranieri e lontanissimi da ogni punto di vista. Perché per chiunque debba affrontarli, quei tipi di emigrazione sono dei veri drammi, non c’è dubbio.
Ora ho trovato un modo per rendere effettivo quell’”aiutiamoli a casa loro” e si tratta di Kiva.org, un’associazione che si occupa di microcredito in tutto il mondo.
In pratica funziona così:
1) Varie associazioni si occupano di individuare dei piccoli imprenditori nel terzo mondo che necessitano di un finanziamento per avviare o sostenere una qualsiasi attività. Si noti che queste persone non hanno alcuna possibilità di accedere a forme di finanziamento di tipo bancario, non avendo possibilità di dare alcuna garanzia (immobili, stipendi, conti correnti attivi ecc. Provate voi ad ottenere anche qua un mutuo senza quella roba) o neanche essere in grado di accedere alla burocrazia, in quanto analfabeti.
2) Queste associazioni segnalano l’imprenditore e la sua necessità di credito sul sito Kiva.org (di fatto spesso capita che queste associazioni PRIMA finanzino loro stesse l’imprenditore e POI lo segnalino sul sito).
3) Chiunque di noi può scegliere uno dei tanti imprenditori segnalati e elargire il proprio finanziamento (taglio minimo 25$)
4) L’imprenditore poi restituisce il credito nel tempo

Si noti che il tasso di restituzione è molto alto, circa il 98% (che pare che sia davvero molto alto), quindi nel giro di mesi i soldi ritornano sul conto del finanziatore (noi) che può poi decidere di fare un altro finanziamento o di riprendersi i soldi.
Quindi si tratta di un PRESTITO, non di beneficienza. E i vantaggi di questo tipo di operazione sono molti, al di là del fatto che non sono soldi persi per chi finanzia. Si tratta di un impegno che mantiene alta la dignità dei beneficiari, ne stimola l’impegno imprenditoriale e responsabilizza i finanziatori a non lasciare soldi a fondo perduto di cui non si può conoscere l’effettiva destinazione.
Finisco col dire che si tratta di un sistema molto serio e ben strutturato. Di ogni possibile finanziamento sono indicati i dettagli del progetto imprenditoriale (è una parolona, ma a volte si tratta di attività molto semplici), la valutazione del rischio del prestito, la valutazione del partner coinvolto, statistiche sulla stabilità della regione in cui l’impresa ha sede, ecc.

Io, novello e microscopico Bill Gates, ho iniziato finanziando un gruppo di donne imprenditrici nel sud del Costa Rica che sperano con i soldi ricevuti di avviare o incrementare le loro attività di taxista, ristoratrice, venditrice di cosmetici.
Qui sotto un immagine delle "mie" imprenditrici. In bocca al lupo ora!

29 gennaio 2010

J.D.Salinger 1919-2010

Se ne è andato un grandissimo.
Non ci aveva regalato più nulla da molto tempo, ma era sempre un grandissimo.

Ciao Jerome David.

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Sono andato a vederlo.
Dicevano tutti che fosse una cosa epocale, da non perdere, e che l’unico modo di goderlo in pieno fosse di andarlo a vedere in un cinema dove lo proiettassero in 3D.
E così ho fatto.
Che dire? Si conferma tutto quanto avevo già letto in giro: l’impatto è sconvolgente.
Davvero, è difficile spiegarlo, ma una cosa così non si era davvero mai vista. Quelli che una volta si chiamavano effetti speciali, trucco, fotografia, luci, adesso hanno un nome solo: grafica.
E la grafica di questo film è pazzesca.
Sempre: sia nelle scene ambientate nelle foreste di Pandora (il pianeta mira colonizzatrice dei terrestri), che negli interni (ipertecnoligici: il film è ambientato nel 2154), che negli esterni più ordinari, la definizione delle immagini è praticamente perfetta. Il 3D poi le da il tocco in più che contribuisce a conferire realismo alla scena, facendoti quasi letteralmente immergere nel film.
Quando le scene coinvolgono i Na’vi dovrebbe essere una sorta di animazione, un cartone animato insomma, ma non c’è niente, niente che dia l’impressione di essere disegnato, è tutto talmente convincente e realizzato nel minimo dettaglio da risultare perfettamente reale.
Poi c’è la trama, la storia e qui il discorso cambia decisamente: storiella di buoni contro cattivi delle più banali, straviste, anzi, senza neanche quei tentativi di sfumatura, di ambiguità che perfino nei filmoni d’azione holliwoodiani ormai si sentono in dovere di mettere. I buoni sono perfettamente buoni, i cattivi assolutamente cattivi, il pianeta è stupendo, i nativi vivono in un’armonia paradisiaca…
Insomma, un polpettone d’avventura e azione tagliato con l’accetta.
Ma ci sta, è comprensibile. L’investimento probabilmente è stato troppo alto perché si rischiasse un flop con una storia non ultra-collaudata. Il problema è che di cose così se ne sono viste davvero troppe e allora voglio proprio vedere se il sogno di Cameron di replicare il successo cult di Guerre Stellari si può realizzare. Voglio dire: quella roba lì (buoni-cattivi, bene-male, belli-brutti,...) trent’anni fa poteva ancora costituire un successone duraturo, che ancora adesso c’è chi ne va pazzo. Ora non più, se ne sono viste troppe di cose così. Opinione personale eh, poi magari mi sbaglio e allora fra 25 anni ci saranno ancora i raduni di gente vestita da Na'vi come ancora fanno con Star Wars.
Poi il polpettone è ben fatto eh: le scene d’azione sono avvincenti, quelle romantiche sono commoventi, qualche piccola gag strappa pure un sorriso, e alla fine si arriva in fondo alle 2 ore e 40 senza annoiarsi mai (beh, quasi mai).
La cosa che ho trovato più fastidiosa è grossomodo la stessa che aveva già scritto Amedeo Balbi: ma porca miseria, su un pianeta distante 4,5 anni luce dalla terra, possibile che la vita si sia sviluppata in modo così incredibilmente simile a quella terrestre? Le foreste sembrano foreste tropicali. Vabé, con fiori bellissimi e mai visti, ma sono fiori e piante e alberi e liane e muschio… tipo in Amazzonia, per esempio (e il pensiero per l’Amazzonia è una costante nei risvolti ecologistici della vicenda). Poi i Na’vi sono blu, sono alti 3 metri, hanno la coda, ma due gambe, due braccia, due occhi espressivi da morire, tirano con l’arco, si baciano, litigano, si radunano intorno ai fuochi per le cerimonie… Gli uccelli non sono proprio uccelli, ma delle specie di pterodattili, come da noi qualche milioncino d’anni fa…
Insomma, fantasia per fantasia, ci si poteva spingere un po’ più in là e ipotizzare delle forme di vita ben diverse dalle nostrane. Ma poi tornava il discorso del rischio: chi si appassionerebbe alle vicende di esseri pensanti ma di consistenza gelatinosa che si muovono come millepiedi e comunicano con vibrazioni nell’ultravioletto, per dire? Nessuno, anche se sarebbe stato più plausibile.

Comunque nel complesso un filmone: non va inteso come un’esperienza cinematografica, ma come un lunghissimo, coloratissimo, coinvolgentissimo e meraviglioso (nel senso della meraviglia) giro in giostra.
Alla modica cifra di 10 euro.
Si può fare, venghino signori, venghino.

26 gennaio 2010

Sto pasticciando

Chi visita questo blog si sarà ben accorto che sto picchiando duro sul layout della pagina.
È che ho trovato dei template bellissimi qua, e allora voglio cambiare un po' aspetto alla pagina.
E quindi aspettatevi un po' di casino, tra una prova e l'altra.

Ciumbia!

La scienza si sa, è astrusa e pressoché incomprensibile.
Allora si è inventata una cosa chiamata divulgazione che non è altro che il tentativo di tradurre la scienza in parole comprensibili ai non addetti ai lavori.
È un impresa difficile, tanto che c'è chi addirittura ne nega la legittimità, sostenendo che sia impossibile tradurre in termini non tecnici dei concetti che si basano su un linguaggio codificato troppo strutturato per potere essere ricondotto al parlare comune senza perdere, in questa traduzione, aspetti importantissimi.
In fondo è un problema comune alle traduzioni in genere. In questo caso forse ulteriormente amplificato.
Però a volte ci si riesce, e questo è un esempio (piuttosto semplice a dire il vero).
Si tratta di rispondere ad una semplicissima domanda: "Quante sono le stelle nell'universo?"
Amedeo Balbi, tenutario di un interessantissimo blog, risponde così:

Nella nostra galassia ci sono circa cento miliardi di stelle. Si stima che in tutto l'universo osservabile ci siano circa cento miliardi di galassie. Assumendo che ognuna contenga cento miliardi di stelle, come la nostra, ci sono circa diecimila miliardi di miliardi di stelle in tutto l'universo. Se per ogni stella aveste un granello di sabbia, potreste coprire tutta la superficie della Terra con uno strato di sabbia spesso due centimetri[*].



[*]Se ogni granello ha un diametro di 1 mm, ce ne sono circa un miliardo in un metro cubo. La superficie terrestre è di 5.1x1014 metri quadrati; moltiplicando per due centimetri di spessore avete un volume di circa 1013metri cubi; moltiplicando per il numero di granelli in un metro cubo (109) avete 1022, uguale al numero di stelle nell'universo.