21 agosto 2007

Alpinisti

La scorsa settimana ho trascorso alcuni giorni in un campeggio ai piedi del Monte Bianco (qui) e ho avuto modo di osservare da vicino diversi di questi personaggi.
Questo campeggio infatti, oltre ad essere meta ideale per famiglie alla ricerca della natura e della quiete al di fuori dai grandi flussi turistici, è pure un ottimo campo base per chi intende cimentarsi nelle spettacolari arrampicate sul massiccio che lo sovrasta.
Io naturalmente faccio parte del primo gruppo, per i quali l’attività più rischiosa è l’accensione dei fornellini a gas per scaldare la colazione e la più faticosa l’addormentarsi in tenda sul terreno duro insaccati nel sacco a pelo.

Ma ogni tanto, preso nelle mie tranquille faccende, mi scopro incantato ad osservare gli alpinisti alle prese con la vita al campo. In genere sono taciturni, hanno i volti bruciati dal sole, utilizzano tende minuscole e scomode, hanno un’aria molto più trasandata degli altri vacanzieri. La sera soprattutto hanno l’aspetto stanco di chi ha dato fondo a tutte le proprie energie, ha ancora i muscoli indolenziti, i movimenti essenziali di chi non intenda fare inutilmente alcuno sforzo aggiuntivo.

E li guardo, e penso che nel fare quello che hanno fatto quel giorno hanno avuto coraggio, passione, forza, determinazione, e hanno messo a frutto esperienza e competenza, hanno affrontato pericoli sapendo che il prezzo da pagare in caso di imprecisione poteva anche essere la propria vita o addirittura quella dei compagni. E per questo (è scritto in qualsiasi trattato sull’alpinismo) sono stati in grado di valutare i propri limiti, hanno dovuto avere la prudenza di chi sa di essere nulla, un fuscello che la forza di quelle pareti immense può spazzare via con la solita indifferenza della natura.

Questa capacità di dosare tra loro in maniera sapiente e precisa tutte le doti non comuni che fanno di un uomo un buon alpinista, rivela in maniera evidente, sotto quelle pelli arse, sotto quei capelli arruffati, la luce invidiabile della saggezza.

Invidiabile. Ecco, lo ammetto: mi sono ritrovato ad invidiarli.

11 agosto 2007

Ascolti in famiglia

Oggi in macchina con mio figlio ho acceso il lettore cd ed ho lasciato partire il cd che ascoltavo ieri sera tornando da lavoro. Si trattava di Tommy.
Normalmente in macchina con i bimbi l’unica musica che si riesce ad ascoltare è quella di un paio di loro cd con canzoni rigorosamente per bambini. Devo dire che in genere la più intransigente riguardo alla selezione musicale è Carlotta, la quale è in grado di soffocare qualsiasi tentativo di ascoltare qualcosa di diverso dalla Vecchia Fattoria o Carletto l’ha fatta nel letto con un’ininterrotta serie di “Non mi piace!”, “Questa non è la Vecchia Fattoria!”, “Ma che brutta ‘sta canzone!”.

Lorenzo invece in genere è più accomodante, anzi a volte, forse per infantile piaggeria, o forse perché effettivamente i suoi gusti musicali sono più aperti delle mie aspettative, trova apprezzabili cose che francamente mi sorprendono (recente è un mio inaspettato successo con i !!!).

Ritornando ad oggi, accendo il lettore e questo parte con l’attacco funky di “Smash the mirror”. Lorenzo all’inizio rimane indifferente, più che altro assorto nei pensieri suoi, poi, com’era lecito aspettarsi, il rumore dello specchio che va in frantumi nel finale cattura la sua attenzione:

-Che è successo, papi?-

Io non mi lascio sfuggire l’occasione, colgo la palla al balzo e mi lancio nella descrizione della storia di Tommy. Ovviamente la edulcoro, sfrondo i passaggi più “da bollino rosso”, la scoperta e l’omicidio dell’amante della mamma da parte del padre, il relativo trauma con le ingiunzioni a non avere visto niente, non aver sentito niente, a non dire niente. E poi soprattutto il sadismo del cugino e la depravazione dello zio Ernie.

Naturalmente Lorenzo non capisce ne’ conosce l’inglese, quindi sono io a “tradurgli” i testi delle canzoni, a spiegargli, ”Il papà è triste perché Tommy non capisce neppure che è Natale”, “Qui è Tommy che pensa e che chiede aiuto, Guardami, Sentimi, Toccami, Guariscimi…”, “Qui è la mamma che lo chiama, Tommy, Tommy, Tommy, Tommy”…

Insomma alla fine trasformo quest’opera rock in una specie di favola in cui un bambino, Tommy, nasce, poi a dieci anni ha una specie di incidente in cui perde vista udito e parola (ci pensi Lorenzo che cosa pazzesca deve essere?).

E poi a casa ancora, “Papi, mi metti quel disco del bimbo sordo cieco e muto?”. Ok, ci mancherebbe, e via col cugino sadico, lo zio cattivo, la maga zingara, il dottore, la guarigione, il successo, l’ascesa e infine la caduta.

Naturalmente per un bambino la storia, questa favola di un suo simile così sfortunato è l’attrattiva primaria dell’opera. Ma poi credo che la musica che per lui non è altro che il sottofondo, abbia comunque un ruolo che, seppure quasi subliminale, è pur sempre primario, fondamentale nel sostenere il dramma, con la sua evoluzione, soluzione e catarsi finale.

Insomma una cosa che ho sempre notato in molti dei film di animazione che si sciroppano come delle spugne è la moltitudine dei livelli interpretativi che questi hanno, permettendone una fruizione gradevole non solo ai bambini, che rimangono pur sempre i principali target di questi prodotti, ma pure ai genitori che comunque al cinema li devono portare, o che il dvd lo devono comprare e a cui devono permettere l’occupazione del sistema di proiezione casalingo. Insomma un’intelligente ed efficacissima questione di marketing.

E oggi ho scoperto che pure un prodotto ben più impegnativo, serioso e pure piuttosto trasgressivo (perlomeno per l’epoca in cui fu realizzato) può presentare, questa volta dall’alto verso il basso, più livelli interpretativi, entusiasmando il trentasettenne folgorato di fronte ad una delle più alte espressioni del rock, e i bambini, intrigati dalla storia di quel bambino sfortunato cheperòallafineguarisceecheèbravissimoalflipper.

-Papi? Cos’è un flipper?
-Un giorno ti porto a vederne uno…

P.S. Stasera, dopo avere buttato giù le bozze di questo pezzo, ho notato che nella buca delle lettere c’era una lettera della lega del filo d’oro. Io non credo ai segni del destino, ma questa volta ci sono rimasto proprio di sasso. E va da se che mi sono precipitato a fare una donazione (scaramanzia? coscienza? non so, comunque questa volta è a fin di bene)