30 settembre 2008

Due anni

Ciao Alberto.
Il tempo passa.
Solo quello.

29 settembre 2008

Don DeLillo - Underworld

Underworld è uno di quei libri considerati universalmente dei tali capolavori che solo l'accostarcisi mette un po' in soggezione. Tenuto conto che poi, anche al primo sguardo, il libro si presenta come un mattone di più di 800 pagine, decidere di affrontarlo di petto è uno di quegli slanci che si prendono con un po' di cautela, tipo un tuffo dagli scogli. E di tuffo, anzi di immersione quasi completa, si tratta veramente.
Personalmente, come avevo più o meno pronosticato, ci ho messo quasi tre mesi a leggerlo, durante i quali ho nuotato nella vita degli USA della seconda metà del secolo scorso, seguendo le vicende di una moltitudine di personaggi immaginari e reali, le cui vite si intrecciano, si separano, si avvicinano, si allontanano, seguendo i percorsi tortuosi, casuali e complicati della vita. Quella reale.
L'andamento cronologico è zigzagante e parte dagli anni '50, per poi spostarsi alla fine dei '90 e poi, a grossi capitoli, tornando indietro, agli '80, poi ai '70, ai '60, ritornando agli anni '50 da cui tutto è iniziato e infine, nelle ultimissime pagine, di nuovo a fine millennio.
I personaggi sono tanti, la cronologia è anomala, la narrazione è frammentaria e non vengono fatte concessioni alla semplice leggibilità. In poche parole, l'impressione preventiva di mattone è del tutto confermata.
E io confesso di avere più volte avuto la fortissima tentazione di avvalermi del secondo e del terzo diritto del lettore secondo Daniel Pennac, ovvero Il diritto di saltare le pagine e Il diritto di non finire il libro. Alla fine però la scrittura di DeLillo (e la sua traduzione, ovviamente) sono talmente straordinarie, che pur con lo sforzo necessario a raggiungere simili vette, si viaggia sempre a dei livelli talmente strabilianti che ogni volta ho deciso di non mollare. Per esempio, il primo capitolo, quello che descrive una storica partita di baseball tra New York Giants e Brooklyn Dodgers, costituirebbe da solo uno dei più bei racconti che abbia letto in vita mia. Il resto poi tocca ancora vette altissime, ma molto spesso frammentarie e (apparentemente) disordinate e l'assenza di un chiaro filo narrativo ha messo a dura prova la mia resistenza di lettore.
Mai come questa volta mi sono trovato a desiderare la fine di un libro. Primo perché più di una volta ho sentito il bisogno di emergere da quell'immersione per approdare a letture più facili o trascinanti e poi perché quella vetta, che vedevo in fondo alle 880 pagine, la volevo davvero raggiungere a tutti i costi.
E alla fine, stremato come dopo una scalata, ho riguardato indietro il percorso e mi sono reso conto di avere fatto un viaggio straordinario, di essere stato messo di fronte ad alcune delle tematiche più affascinanti e allo stesso tempo inquietanti dei nostri tempi, come la tecnologia, il progresso, la paura di quel che con essi riusciamo a combinare, ai paradossi che essi generano... e come capita al termine di una scalata, mi sono reso conto con gioia (e quasi sorpresa) che tutto quello sforzo valeva davvero la pena.
Un'ultima annotazione, a margine: qua e là, e pure nella quarta di copertina del libro, si dice di una palla da baseball (la palla giocata nel primo capitolo) come filo conduttore di tutta la vicenda, nei suoi passaggi di mano dagli anni '50 a oggi. Non è vero. Questa palla c'è e ogni tanto sbuca fuori nel racconto, ma non è affatto il fil rouge che si dice. Se questo lo si vuole proprio cercare, può essere piuttosto la vita del protagonista principale, Nick Shay, attorno a cui gravitano tutti gli altri con le loro vicende pubbliche o private.
Una lettura che consiglio di affrontare prima o poi, ma con cautela. Io ho cercato di avvertirvi.

26 settembre 2008

Gran Partita

Ieri ho rivisto, dopo anni, Amadeus di Milos Forman. Per chi non lo sapesse, racconta la vita di Mozart raccontata da un anziano ed astioso Salieri che, fa capire il film, sarebbe il responsabile più o meno diretto della sua prematura morte.
Questa letale rivalità col compositore italiano è il tema centrale del film e chiaramente ne determina piuttosto negativamente il valore se si pensa che si tratta di una leggenda mai provata e anzi, molto probabilmente, del tutto falsa. Mi fa sorridere pensare come, ai giorni nostri, una cosa del genere porterebbe ad una querela di dimensioni colossali, roba che l'azione  di Enzo Maiorca nei confronti de Il Grande Blu, sarebbe niente a confronto. E invece Salieri è morto, Mozart pure, e quindi evidentemente si può dire quel che si vuole.
Al di là di questo dettaglio (si fa per dire) il film comunque è bellissimo, e mi sono ancora una volta emozionato durante la scena in cui il vecchio Salieri descrive il suo primo incontro con Mozart e la sua musica. La scena alterna flashback e tempo presente e rappresenta il ricordo di Salieri con in mano uno spartito di Mozart e la sua meraviglia di fronte ad esso:
Sulla pagina sembrava... niente.
Un inizio semplice, quasi comico, appena un palpito, con fagotti, corni di bassetto,
come lo schiudersi di un vecchio cofano.
Dopo di che, ad un tratto... un oboe!
Una sola nota sospesa lì, immobile
finché un clarinetto ne prende il posto,
addolcendola con una frase di una tale delizia...
in sottofondo si ascolta la musica di cui sta parlando Salieri, l'Adagio della Gran Partita (K 361), una delle cose più belle che esistano al mondo e, per quel che vale, una delle poche musiche davvero in grado di commuovermi fino alle lacrime.
Qui la scena in questione (in inglese):

E qui una registrazione completa del movimento:

25 settembre 2008

Okkervil River - The Stand Ins

La pagina di Wikipedia dedicata agli Okkervil River apre così. Notare la frase in grassetto:

Voila, ho fatto la battuta! (l'immagine è ritoccata, lo dico subito per evitare storie)
Cretinate a parte, è effettivamente vero che gli OR sono l'unico gruppo di cui mi sia mai procurato una maglietta. Un po' perché l'ho trovata in rete a pochi dollari, un po' perché era davvero bellina, con l'immagine della copertina del loro terzo album e infine e soprattutto perché gli Okervil River sono un gruppo che mi piace un sacco.
Ora poi se ne sono usciti con un nuovo disco e il mio apprezzamento ha trovato una nuova, ancora maggiore, conferma.
La musica di The Stand Ins ricalca piuttosto fedelmente lo stile che ha caratterizzato i precedenti lavori, ossia un rock piuttosto classico, solo con qualche tendenza al folk, quattroquarti di chitarra basso batteria e tastiere come da manuale, con qualche spruzzatina di tromba, banjo, fisarmonica e steel  guitar. Niente di troppo fuori dagli schemi o di sperimentale, ma semplicemente (e scusate se è poco) belle, bellissime canzoni.
The Stand Ins è stato inciso più o meno nelle stesse sessioni del precedente The Stage Names, che avrebbe potuto essere un album doppio e che poi, pare per ragioni di coerenza, è poi invece uscito come album singolo.
Questo dovrebbe pertanto esserne un sequel (tipo, per chi li conoscesse, Black Sheep Boy Appendix lo fu di Black Sheep Boy) e quindi, come quasi sempre è regola, esserne una pallida rivisitazione. Invece, secondo me, è decisamente meglio.
The Stage Names infatti a mio avviso ricalcava troppo le orme di quella meraviglia che è stato Black Sheep Boy, e come spesso capita, faceva venire troppa voglia di riascoltarsi quello per essere giudicato obiettivamente.
The Stand Ins invece, pur essendo, ripeto, frutto delle stesse registrazioni, si stacca in maniera piuttosto decisa dal suo gemello e beneficia di una certa dose di originalità nello stile che a quello mancava.
Le canzoni hanno più tiro, sono più accattivanti e briose, con costruzioni non troppo ardite ma comunque mai piatte. La voce di Will Sheff passa tranquillamente dal sussurro, al crooning più caldo, dal cantato trascinante al lamento, sempre colorando della giusta tonalità i ritmi dei brani, a loro volta sorretti da tutta la band con piglio e buon gusto folk-rock.
Anche questo è un disco che sta faticando ad uscire dal mio lettore e, data la maglietta e l'ennesimo entusiasmo per il loro lavoro, almeno per i prossimi giorni dirò con sicurezza: "Il mio gruppo preferito? Gli Okkervil River!".
Ah, già, stavo per dimenticare la copertina dell'album:

23 settembre 2008

Confermo

DLZ (penultimo brano dell'album dei Tv On The Radio magnificato qui sotto) è il pezzo più figo degli ultimi 20 anni.

Beh, forse esagero, trascinato dall'ascolto "volume-a-palla" che ne ho fatto venendo qui in ufficio.
Ma è figo davvero. 

22 settembre 2008

Tv On The Radio - Dear Science,

Smaliziato e cinico, mi capita ormai di rado di fare un salto per la sorpresa vagando per i negozi di CD. Giro piuttosto con fare curioso e sbircio tra gli scaffali, metaforicamente sollevando un sopracciglio alla visione di qualche cd sconosciuto di gruppi conosciuti, riponendolo poi con fare snob e la faccia di chi ha già capito che tanto si tratta di un disco che sicuramente sarà il disco dello sputtanamento del gruppo, quello che "erano meglio i primi lavori", quelli che avevano venduto 23 copie in tutto il mondo.
In realtà, il gesto di riporre l'articolo sullo scaffale, avviene quasi sempre subito dopo avere letto l'etichetta del prezzo, come a tutti. Come tutti, non intendo scucire cifre assurde per cd del cui valore non sono sicuro.
Poi ogni tanto capita l'eccezione, e allora corro il rischio, come in questo caso. Veramente gli ho dato un'ascoltata veloce con le cuffie a disposizione e sono stati sufficienti quei pochi frammenti a convincermi che potevo impegnare il mio patrimonio.
I TVOTR sono un gruppo di New York, neppure più tanto indie dopo che con lo scorso album (Return to Cookie Mountain) si erano accasati presso una costola della Universal, compiendo quel passo che spesso segna la fine della stima di tutti i cultori dell'underground, anche se magari al caro prezzo di un finalmente decente e meritato successo commerciale.
Che io sappia il successo commerciale non è stato stratosferico, ma il passaggio al regno del male delle etichette major non ha invece intaccato più di tanto la stima che il mondo della critica nutre nei loro confronti.
Bene, Return to... è uscito nel 2006 e da allora non avevo più avuto loro notizie, o meglio: non i ero più informato sulla loro attività. Mica posso stare dietro a tutti.
Così l'altro giorno, quando ho visto il disco esposto mi sono sorpreso ("Com'è? Non mi hanno detto niente!"), ma mi sono pure fiondato alle cuffie per capire se si trattava di uno sputtanamento o di una grande conferma. Non che si possa capire un granchè in queste scomode sessioni d'ascolto, ma comunque il piedino ha iniziato a battere a ritmo ed un sorriso ebete dev'essersi stampato sulla mia faccia. Ho recuperato la terza o la quarta copia nello scaffale (dev'essere un qualche tipo di nevrosi su cui riflettere: non prendo mai la copia più davanti di un CD, di un libro, ma neppure dei biscotti, del latte o degli spaghetti) e me la sono portata alla cassa.
Ad un primo, secondo, terzo, quarto... ascolto il disco è superlativo. Tant'è che non riesco a levarlo dal lettore, con buona pace dei miei famigliari. In questo lavoro i TVOTR hanno virato verso una forma un po' più easy del loro stile che comunque rimane sempre fatto da una stratificazione di suoni, ritmi, melodie, sfumature e stili che rendono il loro genere difficilmente classificabile e riproducibile. La virata tende ad una sfumatura più funk che negli altri album, ma rimane quella fucina di generi che vanno dall'r'n'b all'hip-hop, alla dance, all'house e a tutto ciò che la magnifica negritudine con cui i nostri affrontano il canovaccio della canzone riescono a spingere dentro con generosità.
Sono presenti un po' più di un tempo canzoni trascinanti, pur forse mancando di alcuni picchi che avevano dato valore enorme ai due lavori precedenti, ma il complesso, il valore medio è sempre di alto livello, con qualche episodio meno felice, ma con altri che sanno davvero farsi apprezzare.

Ora tornerò a fare il guardingo e il sospettoso quando rientrerò in un negozio di CD, ma di certo questa volta sono sicuro di avere fatto la mossa giusta: Dear Science, (con la virgola, eh) è un grandissimo acquisto.

17 settembre 2008

Tenetevi forte

Un certo Joseph Stiglitz, premio nobel per l'economia, mica un patàca qualsiasi, dice:
"La caduta di Wall Street sta al fondamentalismo del mercato come la caduta del Muro di Berlino è stata al comunismo"
e se andiamo a vedere cosa ne è stato del comunismo dal 1989 a oggi, mi sa che ora si inizia davvero a ballare.

16 settembre 2008

Beth Gibbons & Rustin Man - Out Of Season

Ci sono dischi che sembrano essere suonati tutti in punta di dita. Le corde della chitarra appena sfiorate, i tasti del pianoforte accarezzati, la batteria suonata a tocchi leggeri, la voce sussurrata.
E quando le cose sono così semplici, rarefatte, si rischia sicuramente di scivolare nell'insignificante, ma se si ha sensibilità e estro nel saperla esprimere, si può davvero toccare il sublime, come in questo caso.
Lei è Beth Gibbons, voce e una delle due anime dei Portishead. Questo disco è del 2002, e allora il suo gruppo latitava dalle scene da cinque anni.  Non si avevano più notizie , lo scioglimento non era mai stato annunciato, ma tutto faceva pensare che la loro avventura fosse conclusa. Poi quest'anno i Portishead sono tornati alla ribalta con un nuovo disco, ma nel frattempo Beth aveva dato alle stampe questo piccolo gioiello.
Lui, Rustin Man, è Paul Webb, bassista di quei Talk Talk che compirono il rarissimo miracolo di portare una band dai fasti canzonettar-commerciali a episodi di altissimo livello artistico con gli ultimi due album.
Questi due personaggi dalla sensibilità non comune si sono incontrati musicalmente una sola volta, poi le loro strade si sono nuovamente separate[*], come nello stile dei rispettivi gruppi che hanno sempre centellinato le loro uscite, ma per  fortuna questo incrocio ha lasciato una traccia sfolgorante.
Le atmosfere sono rarefatte, autunnali, eleganti, acustiche, spesso folk, a volte jazzy, sempre appassionanti.
Dicevo che il disco è un piccolo gioiello, come quelli che si portano con discrezione e stile, ma che, se illuminate di luce giusta, se ascoltate con la meritata attenzione, sanno donare splendenti bagliori e trasportare nelle mai troppo frequentate lande della musica eccellente.
Regalatevelo per questo autunno, ne sarà la malinconica colonna sonora.

[*] Si dice che Beth e Paul siano compagni anche nella vita. Non lo sapevo e non ho trovato altre conferme. In ogni caso questo è il loro unico lavoro insieme.

15 settembre 2008

Un piccolo passo per l'umanità, un grande passo a casa mia

Ieri Carlotta ha imparato ad andare in bici.
Eccola raggiante sulla sua meritata Decathlon B'Twin 16" Princess, rigorosamente senza rotelle:
P.S. I sensibili di cuore evitino ingrandimenti su sbucciature e lividi su ginocchia e tibie.

10 settembre 2008

volcano! - Paperworks

Tre anni fa mi avevano deliziato con lo splendido Beautiful Seizure e pochi giorni fa sono usciti col loro secondo album, Paperworks.
I volcano! sono un trio di Chicago, essenzialmente chitarra+voce, basso e batteria, ma che, almeno in studio, mischia volentieri tastiere, sax, tuba e altre diavolerie per colorare i suoni.
Il risultato è una musica sghemba e disarticolata, al confine tra noise e rock che riesce a non essere mai irritante pur stando sempre al di fuori dei canoni normali della canzone. Ne vengono fuori pezzi bellissimi ricchi di cambio di ritmo e di invenzioni sonore, appassionati e appassionanti. Niente di troppo orecchiabile eh, si intenda, a parte il cantato di alcuni brani, a volte. Il primo album era infatti più spigoloso e ostico, con questo certi meccanismi si sono un po' più oliati e i brani scorrono via in maniera appena un po' più accessibile, senza comunque mai sbracare nel troppo semplice.
Un gran disco, per una band che si conferma grandissima anch'essa. E sconosciutissima ovviamente. Speriamo che ora almno un po' più di luce le possa arrivare. Se la merita tutta.

9 settembre 2008

Girl Talk, lo schema di What's All About

Qualche giorno fa parlavo di Girl Talk e del suo album-patchwork.
L'indispensabile Wired pubblica uno schema per decodificare uno dei pezzi dell'album, What's All About.
Ecco qua:

P.S. Sto provando Chrome. Una figata, davvero. Mi sa che per il mio fido Firefox sono in arrivo brutti tempi.

8 settembre 2008

Revolussioner!

Ci sono cazzate che trovo ancora più geniali di certe cose reali.
Questa per esempio:

Se girate un po' per il sito (ma appena un po', non c'è molto da vedere oltre la prima pagina) scoprirete che il lancio è previsto per il 2239.
Ci vuole solo un po' di pazienza, ma si sa, il buon vino se la merita.

Domani non mi faccio la barba

...e non mi metto manco la cravatta.
Forse lo sapete già, e se non lo sapete ve lo dico io: mercoledì prossimo, il 10 settembre 2008 il mondo finirà a causa di un giochino che gli apprendisti stregoni del CERN di Ginevra si apprestano a fare, tanto per vedere come va.
Pasticciando con la natura e le sue trame più nascoste, il giocattolo finirà per scoppiargli in mano e la conseguenza di questo sarà un bel buco nero che inghiottirà la terra, i suoi abitanti e la lettera di richiamo che mi faranno domani per essermi presentato in ufficio in abbigliamento non consono.
Non ci credete? Guardate qua, lo dice pure il Corriere:

Ovviamente si tratta di una bella quanto affascinante balla, lo spiega Piero Bianucci in un articolo che comunque il titolista si è premurato di mantenere sensazionale:

Ma la cosa è poi spiegata egregiamente da Amedeo Balbi, uno al cui blog vale davvero la pena di abbonarsi:
L'avete sentito, no? Ne parlava ieri il New York Times, e oggi hanno ripreso la notizia anche i nostri quotidiani. (In rete ho visto che se ne accennava qui e qui.) Se non fosse bastato Dan Brown a dipingere il CERN come un covo di gente che prepara l'apocalisse, adesso ci si sono messi anche i signori Wagner e Sancho. I due hanno intentato causa per il rischio che LHC produca mini buchi neri che potrebbero distruggere la Terra (sono recidivi, perché hanno già perso una causa analoga contro il RHIC). Ora, la cosa non è una novità, in quanto le prime speculazioni teoriche sulla produzione di mini buchi neri al CERN risalgono al 2001. Ma il punto è che tutti gli studi condotti per accertare possibili conseguenze nefaste hanno mostrato che non c'è nessun rischio reale. Perché? Intanto perché la produzione di mini buchi neri è del tutto ipotetica. Poi, perché LHC non farà altro che prendere protoni e sbatterli l'uno contro l'altro a velocità prossime a quelle della luce. La stessa cosa la fa, da miliardi di anni, l'universo: i raggi cosmici che giungono in continuazione sulla Terra, sulla Luna e su qualsiasi altro pianeta non sono che particelle cariche pesanti accelerate a velocità altissime. Ma la Terra e la Luna sono lì da miliardi di anni, come chiunque è in grado di constatare. Il fatto è che buchi neri così piccoli come quelli che potrebbero essere prodotti da LHC scomparirebbero in un tempo brevissimo a causa del fenomeno di evaporazione di Hawking. E anche se non evaporassero, attraverserebbero la Terra a una velocità tale da non avere il tempo di interagire con niente. E anche se, per un caso assolutamente improbabile, uno di quegli ipotetici mini buchi neri rimanesse intrappolato all'interno del nostro pianeta, il danno che potrebbe fare sarebbe ben poca cosa (al massimo, avendo a disposizione tutto il tempo trascorso dall'origine dell'universo a oggi, miliardi di anni, potrebbe ingoiare appena un milligrammo di materia.)
Come al solito: catastrofismo più tecnofobia uguale bufala.

Mi sa che domattina il rasoio mi toccherà usarlo.

4 settembre 2008

Traduzioni

Questa è davvero bella:

a quanto pare la scritta in cinese significa semplicemente "Ristorante". Poi evidentemente, per avere la traduzione in inglese hanno usato un qualche servizio on-line che, in quel momento, aveva dei problemi al server. Pare poi che il cinesino in questione non si sia preoccupato minimamente di verificare che la traduzione fosse decente (io di solito faccio la prova inversa, cioè metto la parola tradotta e chiedo la traduzione inversa per vedere se almeno ci siamo come significato).
Meraviglie dell'era moderna.

3 settembre 2008

Girl Talk - Feed The Animals

Questo è uno dei dischi più curiosi che mi sia capitato di ascoltare. È il trionfo del campionamento. In pratica tutte le canzoni sono dei solidissimi collage fatti di frammenti, autorizzati o no, di altre canzoni. Ne viene fuori un album notevolissimo, diciamo in ambito techno-pop, molto più piacevole di quanto si potrebbe immaginare, pensando a dei frankestein del genere.
E chiunque abbia mai giocato con samples, sequencer o semplici montaggi, sa benissimo quanto un tipo di operazione di questo tipo possa essere faticosa. E quanto complicato sia giungere a un risultato decente.
Le canzoni sono di per sè già molto divertenti e gradevoli. Ancora più divertente è poi il giochino di riconoscere quanti più frammenti possibile all'interno di ognuna. Alcuni sono dei veri tuffi al cuore di nostalgia. Poi se uno vuole la matassa già sbrogliata, l'impagabile Wikipedia fornisce la lista completa dei samples con tanto di timing.
Il metodo di distribuzione dell'album è infine la cosa forse meno originale del progetto. À la Radiohead: paga quanto vuoi, pure $0,00, se vuoi (in questo caso ti viene solo chiesto di dire perchè hai scelto quella cifra).
Lo trovate qui. Ascoltatevelo, ne vale la pena.

1 settembre 2008

Charles Mingus - The Black Saint And The Sinner Lady

C'è una sorta di giochino che si svolge spesso in ambito musicale (ma anche letterario o a volte cinematografico) in cui si tratta di scegliere i 5 dischi "da isola deserta". In pratica: se ti trovassi a potere ascoltare la musica di soli 5 album per un lungo periodo di tempo, quali sceglieresti?
La scelta ovviamente di solito ricade nella zona dei propri album preferiti; io personalmente aggiungerei a questa caratteristica, pure quella di essere dischi che non ci stancano mai, quelli che ad ogni ascolto ne scopri qualche dettaglio ulteriore, qualche sfumatura nuova. Altrimenti, per belli che siano, se non ci danno più sorprese, alla lunga diventano inascoltabili.

In questi ultimi scampoli di vacanza mi sono trovato in una situazione vagamente simile a quella dell'isola deserta: poca disponibilità di musica di mia scelta e pochi momenti (quindi da dosare con cura) per dedicarmici.
Infatti il caso ha voluto che un po' di tempo fa avessi caricato sul mio telefonino l'album in oggetto. Poi, resomi conto che la qualità della riproduzione non era eccezionale, non ho aggiunto altra musica al dispositivo. Così in questi giorni, non essendomi portato dietro l'altro lettore, quello più zeppo di materiale, mi sono trovato a disporre di solo questo disco da ascoltare e mi ci sono dedicato con più impegno di quanto non avessi fatto quando l'avevo comprato.
Si tratta infatti di un disco impegnativo, non tanto all'ascolto in sé, quanto per la mole impressionante di invenzioni, sorprese, dettagli, colori e forme espressive che vengono proposti durante i 40 minuti dell'opera.
Inizialmente Mingus la pensò come un unica suite da abbinare addirittura ad un balletto, poi la sua megalomania scese a patti con esigenze pratiche e si "accontentò" di ridurla a 6 movimenti, di cui gli ultimi 3 costituiscono un unica traccia senza soluzioni di continuità. L'autore la definì una sua autobiografia dalla nascita al suo incontro con Parker e Gillespie, altri ci vedono la storia dell'oppressione dei neri e lo sfogo della mente follemente geniale di Mingus.
Io non so, trovo già sufficiente entusiasmo a lasciarmi trasportare dalle urla delle trombe in sordina (questo sì, evidente citazione e omaggio a Duke Ellington), alle accelerazioni, ai repentini cambi di atmosfera, agli improvvisi interventi della chitarra flamenco, al pianoforte, alle tempeste free-jazz e ai momenti di pura e precisissima orchestrazione, senza lasciarmi andare ad ulteriori intrerpretazioni, e vi assicuro che è già una gran bella esperienza.

Mingus lavorò a questo album come facevano i grandi di quel tempo: fornì vaghe indicazioni ai musicisti e si affidò al loro estro creativo per i dettagli, in modo da lasciare a naturalezza e creativtà la libertà di esprimersi al massimo livello. Poi però, visto che lui era un precisino e questo sistema lo convinceva sì, ma non proprio del tutto (nei primi anni della sua carriera cercava di fare suonare ai musicisti esattamente le cose che voleva lui, come da spartito, ma con risultati non soddisfacienti dato l'esprit libre tipico dei jazzisti), alla fine fece un meticoloso lavoro di post-produzione che gli permise di di giungere a quello che molti considerano il suo capolavoro.

Io il giochino dell'isola deserta non l'ho mai fatto seriamente (magari un giorno di questi...), ma di sicuro questo disco entrerebbe nella selezione. E se gli organizzatori fossero tanto sadici da imporre un unico disco, beh, forse porterei proprio questo.