29 settembre 2008

Don DeLillo - Underworld

Underworld è uno di quei libri considerati universalmente dei tali capolavori che solo l'accostarcisi mette un po' in soggezione. Tenuto conto che poi, anche al primo sguardo, il libro si presenta come un mattone di più di 800 pagine, decidere di affrontarlo di petto è uno di quegli slanci che si prendono con un po' di cautela, tipo un tuffo dagli scogli. E di tuffo, anzi di immersione quasi completa, si tratta veramente.
Personalmente, come avevo più o meno pronosticato, ci ho messo quasi tre mesi a leggerlo, durante i quali ho nuotato nella vita degli USA della seconda metà del secolo scorso, seguendo le vicende di una moltitudine di personaggi immaginari e reali, le cui vite si intrecciano, si separano, si avvicinano, si allontanano, seguendo i percorsi tortuosi, casuali e complicati della vita. Quella reale.
L'andamento cronologico è zigzagante e parte dagli anni '50, per poi spostarsi alla fine dei '90 e poi, a grossi capitoli, tornando indietro, agli '80, poi ai '70, ai '60, ritornando agli anni '50 da cui tutto è iniziato e infine, nelle ultimissime pagine, di nuovo a fine millennio.
I personaggi sono tanti, la cronologia è anomala, la narrazione è frammentaria e non vengono fatte concessioni alla semplice leggibilità. In poche parole, l'impressione preventiva di mattone è del tutto confermata.
E io confesso di avere più volte avuto la fortissima tentazione di avvalermi del secondo e del terzo diritto del lettore secondo Daniel Pennac, ovvero Il diritto di saltare le pagine e Il diritto di non finire il libro. Alla fine però la scrittura di DeLillo (e la sua traduzione, ovviamente) sono talmente straordinarie, che pur con lo sforzo necessario a raggiungere simili vette, si viaggia sempre a dei livelli talmente strabilianti che ogni volta ho deciso di non mollare. Per esempio, il primo capitolo, quello che descrive una storica partita di baseball tra New York Giants e Brooklyn Dodgers, costituirebbe da solo uno dei più bei racconti che abbia letto in vita mia. Il resto poi tocca ancora vette altissime, ma molto spesso frammentarie e (apparentemente) disordinate e l'assenza di un chiaro filo narrativo ha messo a dura prova la mia resistenza di lettore.
Mai come questa volta mi sono trovato a desiderare la fine di un libro. Primo perché più di una volta ho sentito il bisogno di emergere da quell'immersione per approdare a letture più facili o trascinanti e poi perché quella vetta, che vedevo in fondo alle 880 pagine, la volevo davvero raggiungere a tutti i costi.
E alla fine, stremato come dopo una scalata, ho riguardato indietro il percorso e mi sono reso conto di avere fatto un viaggio straordinario, di essere stato messo di fronte ad alcune delle tematiche più affascinanti e allo stesso tempo inquietanti dei nostri tempi, come la tecnologia, il progresso, la paura di quel che con essi riusciamo a combinare, ai paradossi che essi generano... e come capita al termine di una scalata, mi sono reso conto con gioia (e quasi sorpresa) che tutto quello sforzo valeva davvero la pena.
Un'ultima annotazione, a margine: qua e là, e pure nella quarta di copertina del libro, si dice di una palla da baseball (la palla giocata nel primo capitolo) come filo conduttore di tutta la vicenda, nei suoi passaggi di mano dagli anni '50 a oggi. Non è vero. Questa palla c'è e ogni tanto sbuca fuori nel racconto, ma non è affatto il fil rouge che si dice. Se questo lo si vuole proprio cercare, può essere piuttosto la vita del protagonista principale, Nick Shay, attorno a cui gravitano tutti gli altri con le loro vicende pubbliche o private.
Una lettura che consiglio di affrontare prima o poi, ma con cautela. Io ho cercato di avvertirvi.

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