27 giugno 2008

Evangelista - Hello, Voyager

“dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior” diceva il sommo De Andrè. E questa frase, oltre all’originale Via del Campo, sembra adattarsi alla perfezione alla vita della signora Bozulich.
Carla Bozulich è infatti una di quelle donne con un passato denso e profondo, ma non nel senso intellettuale, proprio nel senso di una vita vissuta duramente, affrontando tante di quelle esperienze (droga, violenza, degrado, prostituzione…) che o ti schiantano o fanno di te un sopravvissuto, e poi, forse, un saggio.
E poi la signora Bozulich ha scoperto di avere una voce interessante e di sapere pure cantare, e così, la sua anima ferita e malconcia, ha potuto riversarsi attraverso la sua bocca per dare vita a dischi bellissimi e, manco a dirlo, intensissimi.
Prima partecipa a diversi gruppi, tra New York, Los Angeles e il Canada, poi infine nel 2006 debutta con un disco solista a suo nome, Evangelista, grandioso.
Poi quest’anno, adotta per sé e il suo gruppo, lo stesso nome del disco precedente, e così esce Hello, Voyager, degli Evangelista, appunto.
Dovere scegliere il più bello dei due è impresa ardua, ma raramente nel mondo della musica avevo sentito cantare e suonare e arrangiare musica in maniera così intensa e passionale. Attenzione però: passione vera, sofferta, lacerata, sanguinante, non roba da Sanremo, cuore/amore.
Alcuni brani sono pure orecchiabili, ma altri sono rumorosi, disordinati sofferti e sofferenti, ma sempre magnifici.
Carla Bozulich è definitivamente la mia attuale e insuperabile icona dark, ma dark veramente, non una stucchevole maschera con rossetto nero e mascara pesante.
(foto di Federico Tixi)

20 giugno 2008

The Shaggs, un mito più grande di loro

C’è stato un periodo nella mia vita in cui mi affrettavo a definire “geniale” qualsiasi manifestazione fuori dagli schemi, anche e soprattutto se queste rasentavano o superavano del tutto i confini della follia.
Poi sono cresciuto, sono diventato un po’ meno facile d’entusiasmo e un po’ più cinico, e ho preferito utilizzare il termine “genio” con molta, molta più parsimonia.
Eppure oggi, ho avuto modo di rivivere quei momenti di divertitissima ammirazione ascoltando il disco che probabilmente si può definire “il peggiore di tutta la storia della musica”. Si tratta di un disco dal titolo pomposetto, Philosophy of the World, registrato nell’ormai lontanissimo 1969 dalle tre sorelle Wiggin con il nome di The Shaggs, le arruffate (guardate la foto della copertina per capire il perché di questo moniker), e poi trasmesso qualche volta da qualche radio locale, prima di finire nel dimenticatoio.
Si dice che a produrre il disco fosse stato il padre delle tre sorelle, una sorta di padre-padrone che, nel tentativo di sollevarsi da una situazione economica risicata, non solo si inventò produttore discografico, ma pure decise di punto in bianco che le sue tre figliole erano delle musiciste, pur non avendo loro mai preso in mano uno strumento (forse con l’eccezione di quella che avrebbe suonato la batteria).
Il risultato è davvero sciagurato, e come poteva essere altrimenti? 12 canzoni una più brutta dell’altra e suonate da tre incompetenti che strimpellano ognuna per conto suo, cantandoci sopra strofette banali, stonate e sgraziate. La chitarra è scordata e suonata su una o al massimo due corde, la batteria tutto sommato è suonata con un minimo di capacità (proprio minimo eh), ma assolutamente fuori ritmo, senza senso. Il basso compare solo in un pezzo, ed è un disastro come la chitarra. Insomma, una cosa talmente brutta da essere perfino divertente.
Eppure, nonostante questo disastro, le Shaggs hanno acquisito una fama eccezionale, abbastanza di nicchia, ma comunque del tutto sproporzionata rispetto ai loro meriti. E come hanno fatto? Beh, semplice: è bastato che il meraviglioso Frank Zappa abbia dichiarato in una intervista del ’76 che quello delle Shaggs era “uno dei miei tre dischi preferiti di sempre”.
Apriti cielo! Da quel momento in poi le copie superstiti del loro disco sono state ricercate come il Graal, e quando finalmente se ne trovò una copia originale, fu immediatamente mandata in ristampa ad alimentare un mito sotterraneo che dura tutt’ora, ci sono diversi siti su di loro, pure un fan club. Provate a cercarlo su eMule, ne troverete diverse copie anche in mp3 (come quella che mi sono sciroppato io).
Si sa che Zappa aveva in dosi smisurate il gusto per la provocazione, e non ci sarà mai dato sapere se la sua dichiarazione fosse scherzosa o se veramente lui inserisse quel disco nella sua personale top 3, ma fatto sta che da quel momento in poi le Shaggs vennnero rivalutate anche da critici o musicisti peraltro seri. Ad esempio Terry Adams degli N.R.B.Q. arrivò perfino a paragonarle al primo Ornette Coleman, e un giornalista dell’LA weekly arrivò a dire (non con tutti i torti) che “Se dovessimo giudicare sulle basi della sua onestà, originalità e impatto si tratterebbe del più grande album mai registrato nella storia universale della musica”.
Insomma, capolavoro o grande album non direi, ma che sia qualcosa di veramente originale e, a modo suo, divertentissimo, non c’è dubbio.

18 giugno 2008

Ciao Mario

Mario Rigoni Stern l'ho conosciuto (letterariamente parlando) intorno ai miei vent'anni, sprofondandomi nei suoi due capolavori, Il sergente nella neve e Ritorno sul Don.
Poi di lui ho letto ancora poco, ma ogni tanto scovavo un suo articolo su Repubblica e lo seguivo volentieri nelle sue appassionate descrizioni delle sue montagne.
Ho amato tantissimo la sua scrittura piana, senza fronzoli, dritta al risultato. Se non fosse una banalità per un uomo con la barba, che ha fatto la guerra (e come!), che viveva solitario in montagna, che dispensava i suoi scritti con il contagocce, la definiresti una scrittura saggia.
E ora se ne è andato, in modo discreto, come al solito. Ha chiesto che la notizia della sua morte venisse data dopo i funerali, in modo che i suoi amici e familiari non venissero disturbati da quel mondo che lui gentilmente schivava.
Buona camminata, Mario.

Chiudo con l'incipit del Sergente, uno di quegli inizi che ti fanno chiudere il libro appena iniziato per qualche minuto, giusto il tempo di gustarti il sapore delle parole appena lette:

Ho ancora nel naso l'odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò le sue settantadue bombarde.

17 giugno 2008

testi di dubbia delicatezza, che potrebbero scandalizzare non poco il lettore

Nei miei momenti di pacata ragionevolezza arrivo perfino a pensare che l'anticlericalismo, come la maggior parte degli anti-, sia un atteggiamento fondamentalmente sbagliato perché viziato dal classico "fare di tutta l'erba un fascio".
E poi però, leggendo qua e là, vieni a scoprire che certi comportamenti di cui le gerarchie religiose vengono a volte accusati ancora oggi, quali la chiusura mentale, la prepotenza ideologica, la persecuzione di chi osa pensarla diversamente da loro, non siano poi tanto facilmente liquidabili con un "ma va, quella è roba del passato", ma che sono invece consuetudini praticate ancora ai giorni nostri e anche e soprattutto ad alti livelli della gerarchia.
Succede infatti che una studiosa di cose storiche, Gaetana Mazza, abbia scritto un libro che racconta fatti accaduti in qualche luogo d'Italia tra il '600 e il '700, e che in questo libro si finisca inevitabilmente a parlare di Inquisizione, e che questo lo si faccia mettendo alla luce storie di persone vere, con volti, vite, speranze, paure, pregi e difetti.
Succede poi che, vai a capire perché, magari solo per ingenua riconoscenza (gli archivi dell'Inquisizione resi pubblici dallo scorso papa sono fonte di valore immenso per gli storici, e non solo per i processi in sé, ma anche, come in questo caso, per conoscere la vita reale di quelle epoche), la studiosa invii una copia già stampata ma non ancora distribuita al vescovo della cui diocesi aveva utilizzato gli archivi.
Bene, questo vescovo, dopo aver letto il lavoro, intima all'autrice di mandare al macero il primo volume e di sottoporre ad una commissione ad hoc il secondo, al fine di correggerlo secondo le sue decisioni. La motivazione è che si tratta di "testi di dubbia delicatezza, che potrebbero scandalizzare non poco il lettore". Proprio così, pensa un po'.
E la cosa assolutamente scandalosa è che la legislazione italiana, in base alle norme concordatarie gli consente di farlo, trattandosi di ricerche sugli archivi ecclesiastici (che tra l'altro ricevono finanziamenti statali, i miei soldi, insomma).
In questo specifico caso si spera (come conclude l'articolo in cui viene raccontata questa storia) che il vescovo sia stato, come si dice, più papista del papa, e abbia voluto eccedere in zelo contrariamente alle disposizioni di trasparenza date dallo stesso papa quando era ancora cardinale.
Resta però il fatto che dalle nostre parti gli esponenti di una struttura religiosa hanno la pretesa, e, cosa ancora peggiore, l'effettivo potere, di decidere cosa nel mondo è possibile scrivere e leggere. In questo caso si tratta della chiesa cattolica, ma pensiamo cosa sarebbe successo se a farlo fossero, tanto per fare un esempio, i mussulmani.

13 giugno 2008

Nuovo oggetto del desiderio

Voglio, fortissimamente voglio, i cerchioni PimpStar. Devo solo capire se c'è la misura per la mia macchina e poi con 12.000$ me li porto a casa:


Esistono veramente eh. E li vendono qua.

12 giugno 2008

Joan As Policewoman - To Survive

10 belle canzoni, niente più, niente meno.
Joan Wasser, aka Joan la poliziotta, ha riversato in questo album tutta la grazia ed il buongusto di cui ogni tanto abbiamo bisogno quando ascoltiamo musica. Le sue sono semplicemente canzoni, spesso accompagnate solo dal suo pianoforte, magari con un po’ di batteria, ma suonata con le spazzole. Vecchia maniera, insomma.
In altri pezzi l’accompagnamento è più complesso, ma mai oltre i canoni dell’accompagnamento, appunto. Perché qui la musica supporta la voce, non prende direzioni laterali o ardite, sta lì a supportare il cantato di Joan. Come nelle canzoni, insomma.
La sua voce poi è splendida, calda il giusto, pulita il giusto, senza mai strafare, senza mai dare sfoggio di sé. Sta lì a cantare melodie semplici, ma nient’affatto banali. Anzi, quasi sempre, l’apertura dei pezzi sembra promettere la solita canzoncina ordinaria, ma poi ogni volta, tutte le volte!, la melodia devia un po’ da quello che ti aspetti e allora ti ritrovi a seguirla affascinato.
La canzone centrale dell’album poi, Start of my heart, è un vero gioiello, di quelli da ascoltare e riascoltare fino all’esaurimento.
All’ultimo brano partecipa pure uno splendido Rufus Wainwright, e come suo solito (ma questa è stata una scelta precisa di Joan, per accoglierlo nel suo elemento) le atmosfere si fanno più pompose, operistiche, per un finale con i fuochi d’artificio.

Procuratevelo.

Heavy Metal rules (the babies)

Da un po' di tempo a questa parte (qualche mese), il mio primogenito seienne si è appassionato a quello che lui chiama "il rock duro". Nelle sporadiche sessioni di ascolto, soprattutto in macchina, lui spinge sempre a che si ascolti qualcosa che abbia la maggiore energia possibile. Normalmente queste sue richieste si scontrano però con l'opposizione di sua sorella, che, sia per indole che per l'età minore, preferisce cose più tranquille: "a me piace il pianoforte", dice.
A causa di alcuni impegni estivi che li tengono separati, mi sono ultimamente ritrovato diverse volte da solo in macchina con lui, e allora la sua voglia di schitarrate e doppie grancasse non trova più freni e io devo solo sbizzarrirmi con la scelta dei brani da fargli sentire.
In ordine sparso e con qualche sicura dimenticanza, le ultime proposte sono state:
- Led Zeppelin - Immigrant song
- The Cult - Nirvana, Rain e The Phoenix
- Rage Against The Machine - Bombtrack
- Soundgarden - Rusty cage
(lo so: questa selezione denuncia chiaramente la mia età, ma ultimamente non è che mi sia tenuto molto aggiornato su questo genere)
Ieri sera poi, su input di mia moglie, abbiamo messo sullo stereo i Metallica con Master Of Puppets e lui, al colmo dell'entusiasmo, ha preso ad agitarsi come un tarantolato sul divano.

Da tutto ciò scaturiscono fondamentalmente due considerazioni:
1. il mio primogenito è un esagitato
2. la musica hard rock o heavy metal, nonostante pose machiste o atteggiamenti trasgressivi, rimane fondamentalmente, almeno in alcune sue accezioni più stereotipate, un genere infantile.

9 giugno 2008

Ian Mc Ewan – Sabato

Ian Mc Ewan è uno scrittore capace di scrivere in modo pressoché perfetto. Non una sbavatura, non un periodo zoppicante, non una frase che necessiti rilettura, sempre lucido e limpido come una lama d'acciaio. È uno di quelli che pensi che saprebbe scrivere alla grande anche descrivendo la situazione più banale possibile.
In questo caso, per esempio, descrive con una precisione incredibile una giornata (un Sabato, appunto) di un certo Henry Perowne, dal momento del suo risveglio, prima riga della prima pagina, al suo addormentarsi quasi ventiquattr'ore dopo, ultima riga dell'ultima pagina. Nel mezzo la sua vita scorre in modo quasi ordinario, lineare, a parte le inevitabili e numerose digressioni che riportano gli antefatti e permettono di inquadrare nel modo più preciso possibile l'esistenza del protagonista e dei suoi familiari.
A dire il vero la giornata di H. Perowne a causa di un paio di notevoli incidenti è tutt'altro che ordinaria, anzi è una di quelle che una persona si ricorda per sempre nella vita. Il McEwan però non sbraca mai, non è proprio nelle sue corde, e questi accadimenti sono certamente straordinari, ma sempre entro i limiti della ragionevole plausibilità, un po' come il mio incidente in moto dell'86, memorabile (eccome!) per me, ma niente su cui sia il caso di scrivere un libro.
E in effetti confesso che il sospetto che questa volta McEwan avesse fatto un esercizio di stile (tipo "Il candidato dimostri che è possibile scrivere un libro intero raccontando l'ordinarietà della vita reale") e che questo esercizio fosse un po' fine a se stesso, mi ha assalito diverse volte durante la lettura e altrettante volte ho pensato che come andasse a finire quella giornata, potessi anche evitare di saperlo, abbandonando libro e tribolazioni per passare ad argomenti più intriganti.
Invece, un po' per testardaggine e un po' per dovere nei confronti di un autore che considero tra i migliori dei nostri tempi, sono arrivato fino alla fine e devo ammettere di avere poi chiuso il libro convinto di avere ben impiegato tempo e fatica. McEwan alla fin fine riesce a dimostrare che per descrivere i più reconditi recessi dell'animo umano, non è necessario inserire i protagonisti in situazioni estreme e irreali, ma è sufficiente osservarli con grandissima attenzione mentre si arrabattano tra le già non poche difficoltà della vita ordinaria.

Infine, il lato negativo, che però, non essendo farina del mio sacco, trovo doveroso innanzitutto citarne la fonte (Nick Hornby in Una vita da lettore), e poi devo ammettere che se non lo avessi letto da lui, probabilmente non ci avrei neanche fatto caso: l'ambientazione è troppo smaccatamente borghese, stimato neurochirurgo, valente avvocatessa, suocero poeta di successo, figlia poetessa (già pubblicata) pure lei, figlio apprezzato chitarrista... Non che ci sia niente di male in questo, però, nota Hornby, è una sorta di scorciatoia, quella di raccontare i pensieri di persone colte e intelligenti la cui fine eloquenza è troppo sospettosamente di pari livello di quella dell'autore. In altre parole, troppo facile per uno scrittore descrivere i pensieri di persone simili a lui. Provi un po' a descrivere la psicologia dei tifosi di calcio!

Allora, raga, come ci chiamiamo?

Chiunque in vita sua abbia anche solo tentato di creare una band musicale, ha dovuto affrontare la spinosa questione del nome del gruppo, e sa bene quale carica di implicazioni abbia tale processo, fondamentalmente perché si mettono in ballo valori che a volte vanno ben al di là delle intenzioni semiserie che hanno dato origine alla band.
Nel senso che, magari, il gruppetto è nato in maniera cazzona, tra amici che strimpellano qualche strumento e hanno voglia di fare un po' di casino, ma poi quando si tratta di scegliere il nome del gruppo ci si pone inevitabilmente di fronte ad un futuro improbabile, ma non impossibile, di notorietà. E allora si cerca di dare un po' di serietà al battesimo della band, pur sempre però cercando di non apparire troppo presuntuosi, di non prendersi sul serio, e questo stare in bilico tra il "guarda che qui stiamo solo a divertirci" e il "però non possiamo proprio presentarci con un nome da deficienti" crea a volte degli impasse insuperabili. Tanto insuperabili che un gruppo di rispettabilissime persone che conosco direttamente, aveva chiamato il gruppo "Dillotuprima" perché quella risultava essere l'unica frase che era scaturita dalla riunione battesimale.

Tutto questo l'ho pensato mentre mi chiedevo: ma come cacchio gli è saltato in mente agli Elbow (trad.: Gomito) di chiamarsi così?
E poi dicono che Le Luci della Centrale Elettrica sia un nome eccentrico.

5 giugno 2008

Elbow - The Seldom Seen Kid

Gli Elbow sono un gruppo inglese (di Manchester, per la precisione) semisconosciuto, ma che può già vantare 4 bei dischi, l'ultimo dei quali, Il ragazzo visto di rado, è uscito dalle nostre parti un paio di mesi fa. Si tratta di 11 brani in bilico tra talmente tanti stili diversi da rendere difficilmente definibile il loro genere. Grossomodo stiamo parlando di una cosa che sta in mezzo a pop e rock, ma con inserti folk, blues, drone, soul, progressive,... che danno a questo disco un'aria originale senza uscire troppo da consuetudini tradizionali. E se questa dichiarazione può apparire paradossale è perché a volte paradossale è proprio la musica che si ascolta con questi tizi. Tipo: che ci fa un basso techno in un brano folk? Eppure ci sta alla grande, ed esattamente questo che rende eccezionale questo disco: la capacità di mischiare elementi tanto eterogenei da sembrare stridenti con il buon gusto dei grandi chef.
Consiglio vivamente l'ascolto, o perlomeno un giro sul loro sito, magnifico anch'esso.