27 novembre 2007

Un pensiero serio

Questa volta scrivo su un argomento un po' più serio dei soliti dischi o libri.
Forse tutti conoscete la storia di Randy Paush. Se no sappiate che è uno di quei fenomeni cosiddetti virali sempre più diffusi (e sfruttati) nell'epoca del web 2.0 che si diffondono come un virus, appunto, grazie al cosiddetto tam-tam della rete.
In questo caso la storia è piuttosto commovente ed edificante: un professore americano di informatica a cui è stato diagnosticato un tumore al fegato incurabile, decide di tenere davanti ai suoi studenti (l'aula si rivelerà poi stracolma di amici e persone variamente interessate) la sua lezione di commiato e come argomento sceglie non la propria condizione, ne' la morte, ne' argomenti impegnativi tipo il senso della vita, ma "Come realizzare i sogni della propria infanzia". Il video di questa lezione è poi finito su Youtube (qui, ma è pure presente sul sito della sua università) ed è stato visto centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo. A oggi la versione su Youtube è stato scaricata più di 250.000 volte.
Inutile dire che quest'ultima lezione del Prof. Paush è una vera lezione di vita, di quelle che toccano profondamente. Vale davvero la pena, volendo qui c'è pure una trascrizione tradotta.

Beh, tutto questo è piuttosto noto. Quello che mi ha fatto immensamente piacere scoprire oggi, è che Randy Paush sta ancora molto bene.
Allego qui sotto un'immagine presa dal suo sito, un'immagine che a realizzarla a casa mia riscuoterebbe un successo clamoroso.
Forza Randy!

Throbbing Gristle - Part Two: The Endless Not

Dove sta andando la musica? Cosa si può inventare ancora?
Sono domande piuttosto frequenti in chiunque cerchi qualcosa di nuovo in questa forma espressiva a riguardo della quale a volte pare che si sia già detto e fatto di tutto. Tanto per fare un numero, freedb, il database che raccoglie i dati relativi a praticamente ogni CD che venga pubblicato al mondo, contiene qualcosa come due milioni di voci. Parliamo di qualsiasi CD musicale, dalla musica gotica al noise, dal jazz al rock, dal liscio all’avanguardia, dal punk ai quartetti da camera di Mozart. Se facciamo il solito discorso delle note che in fondo sono 7, e gli accordi sono poi sempre quelli (il discorso che giustifica i plagi, per intenderci) c’è ancora la possibilità che ancora oggi, nel 2007, si riesca a produrre qualcosa di innovativo, senza che questo finisca con lo scivolare nell’esercizio fine a se stesso?
Grazie al cielo la domanda è retorica, e la risposta è affermativa. È il caso di questo disco, uscito in realtà da un po’ di mesi, ma che mi sarebbe dispiaciuto non segnalare prima della fine dell’anno.
I Throbbing Gristle sono uno di quei gruppi che pare che abbiano la musica come attività collaterale, essendo la loro principale la dissacrazione, la provocazione, il tutto con un approccio molto cerebrale e artistico nel senso più sgradevole del termine. Le loro performances (definirli concerti sarebbe riduttivo) non disdegnavano esibizioni pornografiche, violente, disturbanti, di quelle che da un lato ti lasciano perplesso se non proprio irritato, dall’altro possono anche colpire nel segno se il loro intento è risvegliare a suon di shock una parte dormiente della tua coscienza.
Poi però l’attitudine musicale del gruppo prese il sopravvento e si realizzò tra il 1977 e il 1981 con una serie di album, EP e registrazioni live che fondarono un genere, l’industrial senza mai tralasciare l’aspetto provocatorio nelle performance dal vivo.
Nell’81, poi, con una visione autocritica che dovrebbe essere molto più diffusa, compresero che il loro compito era stato realizzato, (Mission terminated) e si sciolsero. Non che non avessero più nulla da dire, semplicemente il seme era stato lanciato, aveva attecchito, e non richiedeva da parte loro ulteriori cure. Poteva essere lasciato libero di crescere secondo le intenzioni di chiunque avesse raccolto il testimone.
I membri dei Throbbing Gristle proseguirono quindi in progetti diversi, chi rimanendo nell’abito musicale, chi riavvicinandosi all’ambito della performance artistica.
Poi dopo ben 26 anni e qualche sopradico riavvicinamento, i quattro decidono di ritrovarsi per realizzare un nuovo lavoro, Part two: The endless not.
Un’operazione del genere è di quelle a massimo rischio, di quelle che critico e pubblico, ben felici di potere riascoltare qualcosa di nuovo da artisti stimati, li attendono però col fucile puntato, pronti ad impallinare qualsiasi scivolata verso la banalità, il bollito, lo scontato, insomma verso la nostalgia dei bei tempi che furono. E di solito va proprio a finire così, nella stragrande maggioranza dei casi.
E invece i TG affrontano l’operazione con un processo diverso: rinunciano ad essere avanguardia (non lo sono più, sarebbe sciocco provarci) e a maggior ragione rinunciano pure ad accodarsi a qualsiasi corrente moderna. Si astraggono quindi da ogni tentazione modernista e fanno un disco fuori dal tempo.
Se lo ascolti non ci trovi nulla di familiare, mai. Però neanche niente di rivelatorio, nessuna apertura di nuovi fronti musicali, nulla che possa dirsi seminale per il futuro. Ci sono brani in cui il ritmo è sostenuto da micro-loop di rumori inintelligibili e l’armonia (se così si può chiamare)è fatta di strati di altri rumori che solo se uditi nel loro insieme acquistano significato musicale. È un po’ come guardare lo schermo di un televisore, da vicino si vedono solo puntini colorati, occorre allontanarsi per comprendere l’immagine che viene trasmessa.
Altri brani hanno un approccio che sembrerebbe più tradizionale, con strumenti quali sax o pianoforte e un canto indolente. A volte sembra (addirittura!) di ascoltare una canzone, la bellissima e struggente Almost a kiss, altre volte il suono si fa totalmente sconnesso, ai limiti del rumore.
Qualche post fa sostenevo che non fosse un buona strategia quella di essere alla moda se si desidera mantenere una certa durata nel tempo. Ascoltando questo disco mi trovo a confermare questa impressione: il suo essere al di fuori (al di sopra) del tempo, unito ovviamente alla grandissima classe dei quattro TG e alla loro intelligenza compositiva, lo rende già un classico, di quelli capaci, pure fra dieci anni, di provocare le stesse bellissime sensazioni.

Ah, ancora una nota riguardo la confezione del CD: si tratta di un jewel-box completamente trasparente che contiene solo il CD stesso e la copertina. Su questa è riportata una foto del monte Kailash, la montagna più sacra di tutto il Tibet, talmente sacra che non è permesso scalarla, e questo, oltre alla sua posizione difficilissima da raggiungere la rende uno dei luoghi più inaccessibili del pianeta. Un luogo denso di spiritualità, altissimo ed inaccessibile: ha a che fare con il contenuto del disco, eccome.

21 novembre 2007

M.I.A. - Kala

Di cognome fa Arulpragasam, di nome Mathangi, Maya per gli amici. Come nome d’arte (o di battaglia) ha scelto M.I.A., che significa Missing In Action, disperso in azione, che è il codice con cui venivano designati i soldati U.S.A. non più tornati dalle guerre nel sud-est asiatico. E nonostante le apparenze, colorate e festose, l’animo di M.I.A. è decisamente combattivo.
Il territorio, a volerlo delimitare grossolanamente, è quello della dance, ma la sostanza è molto, molto profonda. Anzi, “profonda” non è la parola migliore: “vasta” è più corretto. La ragazza ha infatti origini cingalesi, ma è cresciuta musicalmente a Londra, dove, pur assimilando la cultura club più di tendenza del mondo, ha conservato un’attenzione intensa per il cosiddetto sud del pianeta, sia per quanto riguarda i suoni che per i testi, e così va a finire che la sua musica riesca ad abbracciare la vastità del mondo ben oltre i sempre più angusti confini del nostro “occidente”.
Però non si pensi ad un esempio classico di world music, anzi: questa è roba che se la ascoltate a volume alto in macchina rischiate di fare la figura del tamarro da unza-unza. Il fatto è che se gli prestate orecchio con appena un po’ di attenzione, vi accorgete che i suoni sono sofisticatissimi e stratificati e che molti di essi evocano paesi esotici, paesi poveri, paesi sfruttati e pure “stati canaglia”.
E poi i testi, cantati con il piglio gioioso della disco music, celano testi che sono vere mazzate, roba da svuotare le piste a suon di sensi di colpa, altrochè:

When you go Rwanda Congo
Take me on ya genocide tour
Take me on a truck to
Darfur
Take me where you would go

Oppure

I'm knocking on the doors of ya hummer hummer
Yeah we hungry like the wolves huntin dinner dinner
And we moving with the packs like hyena yena
Barbarella looks like she my dead ringer
When I'm dogging on the bonner of ya red Honda

Insomma, questa è la strategia di Miss M.I.A.: gridare al mondo le sue peggiori nefandezze utilizzando uno stile accattivante, gradevole alle masse, perché è alle masse che deve arrivare il messaggio ed è controproducente fare i ricercati o i sofisticati. Però M.I.A. sofisticata lo è, eccome, e allora scopri che quello stile all’apparenza trito nasconde un tesoro di generi, stili, suoni e influenze da fare invidia ai più paludati chansonnier.
E infine l’ultimo dettaglio (si fa per dire): la ragazza è pure bellissima, e questo non fa altro che aumentare il fascino accattivante della sua proposta. Per questo motivo, per avere una sua immagine nel mio blog, ripeto lo schema di mettere su la copertina del CD in oggetto e qui sotto la foto dell’artista.
Voilà:

20 novembre 2007

A proposito di buon gusto

Passo davanti ad una libreria e vedo in vetrina un bello spazio dedicato all’uscita dell’autobiografia di Mike Bongiorno. “Echissenefrega” dovrebbe essere la reazione più assennata. Però, incuriosito mi avvicino per ammirare la foto di copertina. Il Mike sembra uno splendido quarantenne, solito miracolo fotografico. Niente di che, ormai lo fa chiunque, pure io dovrei ritoccare un po’ la foto qui a lato. Poi guardo bene e inorridisco: il titolo del libro è “La versione di Mike”.
Echeccazzo, no! Questa è lesa maestà!
Mike, fai quel che ti pare, reclama pure il tuo seggio al Senato, va in giro vestito da pirla per la pubblicità se vuoi, ma non ti permettere di fare il verso a “La versione di Barney”, chiaro? Mi spiace, ma non ne sei degno.

Dato che è da poco trascorso il decennale dalla sua pubblicazione, non mi perito di accendere un cero virtuale a memoria di quello che è uno dei più bei libri che abbia mai letto.

[Chi indovina dalla copertina di quale album ho preso la candela qui sopra, vince una copia in mp3 di Daydream Nation condivisa su Rapidshare.com]

15 novembre 2007

E poi dicono le femministe...

Al di là della partigianeria di genere, bisogna riconoscere che, nonostante la più che encomiabile (e per conto mio condivisibilissima) ragion d'essere di fondo, il femminismo ha combattuto anche delle battaglie che dire dettate da pedante pignoleria è poco.
Poi però uno scopre che negli anni '60, pure passatempi innocui come la battaglia navale:erano ricoperti da una delicatissima patina di maschilismo:


e allora si può giustificare pure qualche eccesso.
(trovato qua)

14 novembre 2007

Scambia una canzone con Sufjan Stevens

Si sa, Natale sta arrivando e la tradizione vuole che diventiamo tutti un po’ più buoni. Un’altra tradizione vuole che a Natale ci si ritrovi con parenti e amici per scambiarsi gli auguri. E un’altra ancora vuole che durante questi incontri ci si scambino dei doni. Beh, questo è pure ciò che ha deciso di fare Sufjan Stevens con ognuno di noi. O meglio: con uno di noi. E cos’ha Sufjan Stevens da regalare? Canzoni ovviamente. E cosa si aspetta in cambio? Un’altra canzone.
Sufjan Stevens è il ragazzo con l’aria non proprio da genio nella foto qui sopra. È un personaggio incredibile, dotato di una creatività magnifica, sembra non avere alcun imbarazzo ad impersonare il ruolo dello stupidotto provincial-americano.
Due dei suoi album maggiori (e bellissimi) sono dedicati a due stati americani (Michigan e Illinois) e il suo progetto mai smentito è quello di incidere un album per ognuno dei 50. Solo che già dentro al secondo ha infilato 22 tracce, poi insistendo sullo stesso stato con un disco di extras con altre 21 tracce. Voglio dire, se io avessi fatto una sparata del genere (“Inciderò 50 album!”), proverei per lo meno a limitare la roba da mettere in ognuno, magari destinando al disco successivo ciò che posso.
Ma lui no. Lui non si limita, abbandona temporaneamente il progetto e pubblica per il Natale 2006 un cofanetto con 5 (5!) CD interamente dedicati al Natale, ripescando quelle canzoncine che nei film americani vediamo cantare in circolo sotto la neve nei giardini delle casette di provincia.
E per quest’anno ha in mente la pubblicazione di un nuovo album natalizio, e una delle canzoni di queste sarà l’oggetto dello scambio.

In pratica funziona così: chi vuole può inviargli una sua canzone a tema natalizio. Sufjan e la sua casa di produzione la Asthmatic Kitty (Gattino Asmatico!) sceglierà un vincitore e quella persona scambierà i diritti della canzone con una di Sufjan composta per l’occasione. Come con i regali natalizi, dopo lo scambio, la canzone ricevuta diventerà la propria canzone e chi la riceve potrà farne ciò che vuole, rivenderla alla Coca-Cola, inserirla nel proprio disco, cantarla a Sanremo, tenersela per se e cantarsela sotto la doccia, distribuirla gratis sul proprio sito, insomma, proprio quello che vuole.
Ovviamente Sufjan potrà fare lo stesso con la vostra ex-canzone.
Inoltre, solo ad inviare la propria canzone, pur non essendo scelti, si da il diritto alla Asthmatic Kitty di metterla in stream sul proprio sito. È comunque un’altra vetrina dove proporsi.

13 novembre 2007

Bono home made

Nel post dedicato a Kate Nash dicevo della (eventuale) potenza del Web 2.0 nel suo uso promozionale: io voglio mettermi in vetrina e lo utilizzo come tale, virtualmente proponendo a tutto il pianeta me stesso o i miei lavori, i miei prodotti. Così ha fatto Kate Nash e da sconosciuta è diventata conosciuta.
Uno strumento così potente non è però di esclusivo utilizzo dei non-famosi, anzi, ci sarebbe da stupirsi se chi famoso lo è già non utilizzasse questi mezzi come ogni altro per diventarlo ancora di più.
E così han fatto gli U2. Fra poco ricorre il ventennale dall’uscita di The Joshua Tree (chi come me lo comprò appena uscito, faccia un sobbalzo sulla sedia e dica “Madonna quanto son vecchio!”) e per celebrare l’evento il gruppetto di Dublino ne ripropone ben tre versioni (CD normale, deluxe con inediti e rarità e box-set con anche DVD).
La promozione di queste uscite avverrà nei soliti modi, e mi immagino già i negozi di dischi con gigantografie di Bono & Co., ma anche, e qui salta fuori il Web 2.0, per mezzo di un video che anticipa Wave of Sorrow, un brano inedito contenuto nel Deluxe.
Questo ha l’aspetto di un video casalingo, girato con una telecamera tipo quella che io uso per filmare i compleanni dei bambini, e riprende Bono in persona che, prima spiega la genesi del brano, poi attacca la musica che sembra provenire dal suo stereo e ci canta sopra. Ogni tanto, sempre mentre il brano gira in sottofondo, smette di cantare per commentare il testo, poi riprende a cantare in sincrono e così via. Verso la fine poi commenta parlando sui chorus finali e l’effetto è anche carino, una sorta di doppio binario parlato/cantato.
Bono è seduto su un divano tipo IKEA (seeee….), con orribili tendine alla finestra alle sue spalle, indossa una t-shirt come quelle che teniamo tutti noi in casa e un paio di occhialoni come si tengono sempre mentre si sciabatta per casa… (ma noooo, non è lo sponsor, dai!).
Vabè, al di là del sarcasmo, la canzone è una solita degli U2 e non so proprio se sia il caso di ricomprarsi The Joshua Tree per essa, magari spendendo un bel gruzzoletto (qualcosa mi dice che non sarà a 7 euro), però l’operazione è interessante.

In genere le star che si “abbassano” ad assumere atteggiamenti popolari (come le aspiranti rockstar che mettono il proprio video “salotto e chitarra” su YouTube) risultano un po’ goffi. Giudicate voi, il video è qui sotto.

12 novembre 2007

Crash

Che gusto c’è a farsi prendere a pugni nello stomaco da un film? Me lo sono chiesto diverse volte guardando questa pellicola. Può darsi che in fondo ci sia una sorta di masochismo, ma alla fine la risposta è abbastanza semplice: se un film parla della realtà e lo fa in maniera realistica, non può fare a meno di essere crudo e duro. E a me piacciono i film che descrivono la realtà senza edulcorarla, quindi piuttosto che farmi prendere in giro, preferisco essere preso a cazzotti.
Non so quanto questa cosa sia condivisibile, ma per me è così.

Crash è un film del 2005 che racconta, incastrandole l’una nell’altra, tante storie, o più semplicemente, tanti avvenimenti che capitano durante 36 ore a Los Angeles. Il tema principale, il combustibile che alimenta tutti i drammatici accadimenti, è il razzismo, il classismo, l’intolleranza e le incomprensioni tra differenti gruppi etnici o classi sociali. Il modo in cui questi vengono presentati, ed è questo secondo me il punto forte del film, è ogni volta quello del protagonista.
Per esempio: due borghesi bianchi vengono rapinati dell’auto da due neri armati di pistola. Il film poi si sviluppa facendo vedere sia il punto di vista dei rapinati che quello dei rapinatori, mostrandone tutte le ragioni, i torti, le ipocrisie e le contraddizioni, dimostrando che la realtà non è mai una semplice questione manichea di buoni/cattivi o bianco/nero, ma è talmente ricca di sfaccettature e angolazioni equivalenti da renderci ogni volta impossibile dire con sucurezza dove sta il torto e dove la ragione.
E questa sensazione, l’impotenza ad emettere giudizi netti sulle azioni delle persone, per quanto efferate o sublimi esse siano, è una sensazione che sotto sotto provo molto spesso. Non riesco infatti a rassegnarmi al fatto che l’animo umano e la vita delle persone sono argomenti talmente complessi ed articolati da rendere possibile il formulare giudizi sommari, e in fondo giustifico l’operato di chi (i giudici) queste cose (i giudizi) le fa quotidianamente, solo assimilandolo ad una sorta intervento arbitrale che si può solo limitare a valutare l’osservanza o la trasgressione di una regola senza essere tenuti, perché impossibile, a valutarne le ragioni di fondo.
Abbandonando i miei discutibili e contorti ragionamenti e tornando al film: come molto spesso capita nei film americani, la sceneggiatura e le recitazioni sono di livello eccelso, il ritmo è sempre sostenuto, senza mai momenti morti e, nonostante l’estrema frammentarietà della narrazione (le storie sono raccontate a spezzoni che si alternano e si intrecciano costantemente), non si ha nessuna difficoltà a seguirne il filo. L’inizio è drammatico e cinico in tutti gli episodi, poi a seconda dei casi evolve in direzioni dal tenore molto diverso tra loro, qualcuna va bene, qualcuna va male. Come nella vita vera.

Non vorrei essere frainteso, non è un film realista (non nel senso cinematografico del termine), tutt’altro. Però è un film che riesce a mettere in evidenza un aspetto importante della realtà, un aspetto su cui riflettere e che in fondo si può tradurre nel semplice consiglio di buon senso che consiste nell’essere molto prudenti prima di lasciarsi andare in condanne o applausi, perché le cose sono sempre, ma davvero sempre, più complicate di quanto può sembrare.

8 novembre 2007

Kate Nash – Made of Bricks

Questa è una perfetta favola da web 2.0, quel modo di vedere l’attuale Internet non più come un catalogo di informazioni messo a disposizione da grandi editori, ma come un aggregato di contenuti creati dai singoli utenti (blog come questo, ma soprattutto altri ben più popolari, ne costituiscono un lampante esempio).
Kate Nash è una graziosa ragazzotta inglese, cresciuta in un quartiere di Londra che, nonostante avesse studiato il piano da bambina, coltivava il sogno nel cassetto di fare l’attrice.
Poi però si sa, la vita è infingarda, e, arrivata finalmente all’audizione che le avrebbe dovuto spalancare (o anche solo socchiudere) le porte del successo teatrale, fu insindacabilmente rifiutata. Avvilimento e sconforto devono avere minato il buon umore della giovinetta (ha 20 anni, è del 1987) e per colmo di sfortuna, pochi giorni dopo quell’infausta audizione, con la testa persa in chissà quali pensieri, scivola per le scale e al termine del ruzzolone si trova con un piede rotto.
Convalescenza e gesso sono cose noiose da sopportare, soprattutto perché costringono all’immobilità. Così Kate, per ingannare il tempo si riavvicina al piano (e a un basso elettrico regalatole dai genitori) e inizia a comporre, a sistemare vecchie idee, a crearne di nuove, e alla fine, con un pacchetto di canzoni si prenota per una serata in un bar locale dove presentarle al pubblico.
Questa volta il successo è maggiore. Niente di che, ma la gente che la sente sembra apprezzare, così Kate prende coraggio e decide di aumentare il proprio bacino di utenza e apre uno spazio su MySpace dove mette i propri pezzi disponibili all’ascolto.
Non so se conoscete MySpace. E’ un servizio su cui è possibile creare un proprio spazio e fare promozione dei propri lavori, tipicamente musica o video. Pure i gruppi più famosi hanno il loro spazio e su questo è possibile ascoltare senza spendere soldi o fare filesharing i loro pezzi, magari dell’ultimo album (per esempio i Subsonica hanno usato questo servizio per presentare il loro ultimo video. È ancora lì, se vi interessa andate a vederlo).
Oltre che per i gruppi famosi però, su MySpace vuole essere vetrina di tutti quelli che famosi non sono ancora e soprattutto grazie ad un sistema di legami tra i vari utenti del sito, si può creare una rete di contatti che mette in evidenza il proprio lavoro ad addetti ai lavori, musicisti o appassionati.
Non funziona sempre, anzi, sinceramente non funziona quasi mai, però può succedere che qualcuno, grazie a questo sistema, esca dall’anonimato (sono milioni gli utenti di questo servizio) e riesca a realizzare il suo sogno di diventare una star.
Questo è il caso di Kate Nash.
Tra i contatti che la ragazza si crea, vai a sapere come e perché, spicca quello di tal Lily Allen, cantante pop di un certo successo (a cui è giunta per vie più convenzionali: suo padre è un famoso attore comico) che si innamora della musica di Kate, la valuta e la propaganda come "next big thing" e accelera il suo percorso verso la celebrità.
Ora (il 6 agosto scorso) ha pubblicato* quest’album che è arrivato fino al n° 1 in UK consacrando definitivamente una popolarità meritatamente costruita tramite il passaparola.

L’album in sé è un meraviglioso disco pop. Pop, niente più, ma davvero accattivante e divertente, di quelli che si fa fatica a non ascoltare battendo il piedino a ritmo. Gli ingredienti sono ottimi, Smiths in salsa pop, folk, dance-pop, Housemartins, sentimentale, soul, sfrontate scurrilità, leggera elettronica… niente di sconvolgente, ma le scelte sono sempre dettate da buon gusto senza mai venire a noia.

Per i momenti più spensierati.

*Nota per chi condivide le mie stesse nostalgie: l’etichetta con cui ha pubblicato è la Fiction, la stessa degli storici album dei Cure.

7 novembre 2007

Strenna - 1

Oggi voglio provare a dare un consiglio per un regalo di Natale. Il motivo per cui lo faccio già ora lo spiego al punto 3 della lista di buoni motivi qui sotto.

L’oggetto in questione è un cofanetto di tre CD, è di Bill Evans e si intitola The Complete Village Vanguard Recordings, 1961. E ora una lista di 5 buoni motivi per cui questo è un ottimo regalo:

1. Questi tre CD contengono la registrazione completa di uno degli eventi più sbalorditivi della storia, non solo del jazz, ma della musica in generale. Il Bill Evans trio (formato, oltre che da lui al piano, dal magnifico Scott La Faro al contrabbasso, personaggio mai abbastanza rimpianto su cui varrebbe la pena di spendere un intero post, e da Paul Motian alla batteria) concludeva un ingaggio di due settimane di concerti al Village Vanguard, storico locale di New York dove la prassi era (ed è tuttora, andate a vedere il sito) appunto quella di scritturare complessi per una o più settimane intere, con esibizioni tutte le sere, più una conclusiva la domenica che prevedeva anche una sessione pomeridiana.
La registrazione di cui parliamo riguarda proprio l’intera sessione domenicale. Quel giorno il trio di Evans si produsse in una serie di performance meravigliosa, una delle più alte vette (forse la più alta) che un trio piano-basso-batteria abbia mai raggiunto, unendo all’eccellenza tecnica dei tre musicisti, una coesione telepatica e un gusto talmente sopraffino da mettere i brividi. Sappiate che persone ben più preparate di me considerano quel trio il migliore di tutti tempi e quell’esibizione la loro migliore prova.

2. La confezione di questo cofanetto è sobria ed elegante (fa figo e non impegna) e fa un’ottima figura su qualsiasi libreria. Gli dà un certo tono, insomma…

3.
Non è facilissimo da reperire, per cui ha anche quell’aria da io ce l’ho e tu no che si spende bene in società. Io l’ho comprato qui, ma si trova pure qui e qui. Questo è il motivo per cui ne parlo già ora, i tempi di spedizione possono essere lunghetti e occorre muoversi per tempo.

4.
Può essere un valido test per la sensibilità della persona destinataria del regalo. Se non viene toccata nelle corde più intime da brani come My foolish hearth, Waltz for Debbie, Porgy (I loves you, Porgy), beh, di fronte avete un cuore di pietra. Traetene poi le conclusioni che ritenete.

5.
Va bene anche come sottofondo. Sia per momenti molto intimi, romantici, che per, chessò, un aperitivino giù al lounge, tra gente che piace.

Bene, io ve l’ho detto. Se poi volete prendere il disco di Natale di Celentano, fate pure.

5 novembre 2007

M. Houellebecq – Le particelle elementari

Era davvero un po’ di tempo che non leggevo un buon libro contemporaneo. La colpa, tengo a precisarlo, è tutta mia, e i motivi sono sostanzialmente due.
Primo: sono diventato troppo esigente, e la causa di questo è che il tempo che attualmente posso dedicare alla lettura rispetto a quello che gli dedicavo una volta, è diventato davvero ridottissimo e non mi posso più permettere di perdere settimane (ahimé, ormai questo è diventato il tempo medio di lettura di un libro) dietro a qualcosa di anche solo buono. Deve essere almeno ottimo per meritare il mio tempo.
Secondo: sempre a causa del mio poco tempo libero non riesco davvero a rimanere aggiornato su quanto riempie il reparto Novità delle librerie.
Per cui la lettura di un libro scritto negli ultimi 20 anni è per me un’operazione che si svolge sempre con un pizzico di diffidenza. Lo faccio, ma sono tante le volte in cui ho scoperto che l’entusiasmo di recensioni o consigli erano del tutto ingiustificati, da farmi ripiegare sempre più spesso su classici o almeno lavori ben consolidati dal tempo.
Con queste premesse è stata per me quindi una soddisfazione davvero grande avere chiuso questo libro dopo averlo divorato in ognuno dei miei preziosi momenti di lettura.
L’approccio è sgradevole, non lo nego. Il sesso è argomento centrale in questo romanzo e il tono con cui viene affrontato è quasi sempre volgare. Volgare nel linguaggio voglio dire: cazzo, fica, culo, seghe e altre amenità sono praticamente il leit-motif di buona parte della narrazione. L’argomento in sé è poi spesso il sesso nelle sue accezioni più squallide e basse, ma qui sta alla sensibilità di ognuno. A me personalmente non turba più di tanto, ma se intendete regalarlo a vostra zia, pensateci bene.
Oltre al sesso c’è poi l’evoluzione dei costumi dagli anni sessanta ad oggi, con particolare riferimento alla cosiddetta rivoluzione sessuale (te pareva) e a certe contraddizioni del movimento hippie. Il tutto visto con gli occhi di due fratellastri, Bruno e Michel, il primo schiavo dei propri istinti sessuali e con enormi problemi nel realizzarli, il secondo, freddo scienziato, del tutto indifferente ad essi, all’amore e in fondo a tutto ciò che non sia in stretta attinenza alle proprie elucubrazioni intorno alla biologia molecolare.
Oltre al sesso, l’altro grande tema al centro di questo romanzo, è un passaggio epocale, di portata pari a quelle dell’avvento del Cristianesimo e di quello della scienza moderna, basato su fondamenti scientifici. Questa mutazione di paradigma viene annunciata nelle prime pagine e svelata via via con lo svolgersi del romanzo, per cui questo è costellato da diverse divagazioni o approfondimenti di natura scientifica. Va fatto notare infatti che la formazione di Houellebecq è di natura più scientifica che letteraria.
Questo libro è poi piuttosto cinico e pessimista, lascia l’amaro in bocca in molti dei suoi passaggi, in certi punti è perfino sgradevole tanto è spietato. Non a caso è stato oggetto di un vivace dibattito culturale all’epoca della sua uscita nel 1998 in Francia, nel 2000 in Italia, ricevendo accuse di pornografia, di tendenze destrorse (nella sua critica al ’68) e di misoginia e razzismo.
Per conto mio però da queste accuse ne esce davvero bene, dimostra di avere una visione del mondo forse troppo pessimistica e non del tutto condivisibile, ma di essere comunque un ottimo prodotto letterario, che sonda a fondo e senza ipocrisie alcuni aspetti dell’essere umano e della nostra società, senza mai dimenticare ritmo e una certa suspence.

Insomma, se riuscite a non farvi turbare dal suo brutto carattere, leggetelo. Credo che come me avrete l’impressione di avere dedicato il vostro tempo ad un lavoro davvero degno di esso.