12 novembre 2007

Crash

Che gusto c’è a farsi prendere a pugni nello stomaco da un film? Me lo sono chiesto diverse volte guardando questa pellicola. Può darsi che in fondo ci sia una sorta di masochismo, ma alla fine la risposta è abbastanza semplice: se un film parla della realtà e lo fa in maniera realistica, non può fare a meno di essere crudo e duro. E a me piacciono i film che descrivono la realtà senza edulcorarla, quindi piuttosto che farmi prendere in giro, preferisco essere preso a cazzotti.
Non so quanto questa cosa sia condivisibile, ma per me è così.

Crash è un film del 2005 che racconta, incastrandole l’una nell’altra, tante storie, o più semplicemente, tanti avvenimenti che capitano durante 36 ore a Los Angeles. Il tema principale, il combustibile che alimenta tutti i drammatici accadimenti, è il razzismo, il classismo, l’intolleranza e le incomprensioni tra differenti gruppi etnici o classi sociali. Il modo in cui questi vengono presentati, ed è questo secondo me il punto forte del film, è ogni volta quello del protagonista.
Per esempio: due borghesi bianchi vengono rapinati dell’auto da due neri armati di pistola. Il film poi si sviluppa facendo vedere sia il punto di vista dei rapinati che quello dei rapinatori, mostrandone tutte le ragioni, i torti, le ipocrisie e le contraddizioni, dimostrando che la realtà non è mai una semplice questione manichea di buoni/cattivi o bianco/nero, ma è talmente ricca di sfaccettature e angolazioni equivalenti da renderci ogni volta impossibile dire con sucurezza dove sta il torto e dove la ragione.
E questa sensazione, l’impotenza ad emettere giudizi netti sulle azioni delle persone, per quanto efferate o sublimi esse siano, è una sensazione che sotto sotto provo molto spesso. Non riesco infatti a rassegnarmi al fatto che l’animo umano e la vita delle persone sono argomenti talmente complessi ed articolati da rendere possibile il formulare giudizi sommari, e in fondo giustifico l’operato di chi (i giudici) queste cose (i giudizi) le fa quotidianamente, solo assimilandolo ad una sorta intervento arbitrale che si può solo limitare a valutare l’osservanza o la trasgressione di una regola senza essere tenuti, perché impossibile, a valutarne le ragioni di fondo.
Abbandonando i miei discutibili e contorti ragionamenti e tornando al film: come molto spesso capita nei film americani, la sceneggiatura e le recitazioni sono di livello eccelso, il ritmo è sempre sostenuto, senza mai momenti morti e, nonostante l’estrema frammentarietà della narrazione (le storie sono raccontate a spezzoni che si alternano e si intrecciano costantemente), non si ha nessuna difficoltà a seguirne il filo. L’inizio è drammatico e cinico in tutti gli episodi, poi a seconda dei casi evolve in direzioni dal tenore molto diverso tra loro, qualcuna va bene, qualcuna va male. Come nella vita vera.

Non vorrei essere frainteso, non è un film realista (non nel senso cinematografico del termine), tutt’altro. Però è un film che riesce a mettere in evidenza un aspetto importante della realtà, un aspetto su cui riflettere e che in fondo si può tradurre nel semplice consiglio di buon senso che consiste nell’essere molto prudenti prima di lasciarsi andare in condanne o applausi, perché le cose sono sempre, ma davvero sempre, più complicate di quanto può sembrare.

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