30 settembre 2007

Classifiche - 1

Qui in ufficio ci stiamo divertendo a stilare classifiche varie à la Alta Fedeltà. Ne abbiamo fatte di generi diversi, dal cinema alla cucina e le pubblicherò di tanto in tanto. Per iniziare, dato che mi sono sentito in diritto di criticare Rolling Stone, mi sembra giusto esporre pure la mia lista sui migliori album rock (io qui escludo il jazz).
Iniziamo:

1. Robert Wyatt - Rock Bottom [1974] L’avevo già detto, questo è il mio preferito di sempre. È stato scritto e poi registrato in seguito ad un incidente in cui l’autore perse l’uso delle gambe. Essendo lui principalmente un batterista, questo evento lo costrinse ad adottare una prospettiva diversa nei confronti della musica. Ne scaturì questo capolavoro, che mischia, frammenta e frulla rock, jazz e pop, in una serie di 6 brani stupendi.

2. Can - Tago Mago [1971] Avanguardia tedesca di inizio anni ’70. A dirla così sembra un mattone insostenibile, invece è un album, sicuramente non facile, ma almeno per me più che accattivante. Cavalcate psycho-progressive sostenute da una batteria perfetta, passaggi minimali, rumorismi, tecnicismi, ritmi incalzanti, sono solo alcuni degli ingredienti di questo album dalle apparentemente infinite sfaccettature.

3. Pere Ubu - The Modern Dance [1978] Prendi il rock, procurati una robusta mazza e incomincia a battere. Spaccalo, deformalo, ammaccalo, rendilo quasi irriconoscibile. Quasi, ma non del tutto, perché ancora di rock si deve trattare. E questo è quello che hanno fatto i Pere Ubu quasi trent’anni fa. Ne è venuto fuori un album strepitoso,con suoni assurdi appoggiati su una ritmica basso-batteria impeccabile. E poi lui, David Thomas con il suo cantato folle, ubriaco e sghembo. Un genio, davvero.

4. Sonic Youth - Daydream Nation [1988] Sono muri di chitarre a sostenere questo colosso. Chitarre che creano una cortina, un magma su cui galleggiano e si muovono come fantasmi gli altri strumenti e la voce. Album difficile, anche pesante per certi versi, ma davvero magnifico, colossale appunto.

5. Portishead - Dummy [1994] Spleen, atmosfere noir, ritmo lento, echi del passato in forma di samples, e poi lei, Beth Gibbons, ultima dark lady, capace di cullarti e ammaliarti in quel sublime connubio tra retrò e moderno che ancora oggi ad ascoltarlo ti sorprende con la modernità di quel raffinato e ben dosato mix generi ed epoche.

6. The Rolling Stones - Beggars Banquet [1968] Incredibili Stones. Di questo album già solo la copertina è un programma. Quel cesso repellente, i titoli dei brani scritti come graffiti sul muro. Questa ghenga di teppisti sguaiati ha usato il blues e il rock incatenandoli assieme e brandendoli come un arma per soggiogare chiunque avesse a che fare con loro. Questo è per me il loro album più bello.

7. Jimi Hendrix - Are You Experienced [1967] Come si fa a strapazzare in quel modo uno strumento musicale senza mai perderne il controllo? Come si fa a scrivere canzoni così belle senza mai cadere nell’ovvio, anzi dando a tutti una lezione talmente esemplare da trasformare in ovvietà plotoni di egregi musicisti. Di tutti questi si finirà col dire: “sì, bravo, però Hendrix…”. Una iattura per loro, una benedizione per noi.

8. Talk Talk - Spirit of Eden [1994] Una delle storie più affascinanti della storia del rock. Il gruppetto teen-pop dell’epoca dei paninari conquista a suon di hits la fiducia dei produttori, ottiene carta bianca e sforna questa gemma di assoluta e rarefatta bellezza, lasciando sgomenti gli impresari e incantati noi. Minimalismo ed improvvise esplosioni, suoni calibrati col bilancino, una metamorfosi la loro talmente sbalorditiva da far sembrare insulsa quella del bruco-farfalla.

9. Slint - Spiderland [1991] Se quelli al n.3 il rock lo hanno fracassato, questi lo hanno sfibrato, smagliato, reso un tessuto fatto di trame leggere e complicate, costruito sugli essenziali batteria, basso, chitarre e una flebile voce, creando un album unico, epocale e bellissimo.

10. Animal Collective – Feels [2005]
Alla faccia di quelli che “di grandi dischi non se ne fanno più”. Questo strano collettivo di musicisti laterali concepisce un’opera che si concede, rispetto alle proprie abitudini, leggerezza e moderata accessibilità. Ed è un capolavoro di psichedelica contemporanea, acida, dolciastra e ipnotica.

Oggi è un anno

Ciao fratellone.

24 settembre 2007

I 500 di Rolling Stone

(post spocchioso, ma quanno ce vo’, ce vo’)
Su Wikipedia sono riportati i 500 migliori album di tutti i tempi. Me l’hanno fatto notare in ufficio. Vado a vedere, do un’occhiata rapida alle prime posizioni (Beatles, Beach Boys, Beatles, Dylan, Beatles,…) e intuisco trattarsi di classifica orientata verso il mainstream. Poi cerco quello che ritengo essere il mio personale n.1, non lo trovo e così chiudo la pagina con altezzosa sufficienza: non vale un cazzo.
In realtà, quello che io chiamo “il mio personale n.1” non è personale neanche un po’. Anzi, pensavo che si trattasse di un album non famosissimo, ma considerato un capolavoro talmente universale da essere persino scontato, per cui alla domanda “Qual è per te il migliore album rock di tutti i tempi” rispondo un po’ imbarazzato “Rock Bottom di Robert Wyatt” ripromettendomi tutte le volte di trovare qualcosa di più ricercato per potere fare ancora più il figo. Pensavo che fosse un po’ come se alla domanda “Qual è la migliore squadra di calcio del mondo?” uno rispondesse “il Brasile”. Grazie al cazzo*.

Beh, allora diciamo che ci può stare, penso successivamente un po’ più a freddo, i miei gusti posso essere benissimo non condivisi senza che questo debba per forza screditare le scelte della “giuria scelta dalla redazione americana della famosa rivista”, ci mancherebbe. Allora riapro la lista e inizio a scorrerla. Beh, i nomi e gli album, sono effettivamente quelli di maggior successo del binomio critica-pubblico, cioè quelli che sono considerati grandi album “da chi se ne intende” e hanno pure venduto montagne di copie. Non condivido, ma comprendo.
Al numero 12 noto Kind of Blue (Miles Davis). Ma non si parlava solo di rock? No, effettivamente si parla di “The RS 500 Greatest Albums of All Time”, nessun accenno al rock, sembra essere un discorso generale. Allora Kind of Blue ci sta, niente da dire. Io lo metterei un po’ più su, ben prima di London Calling (8°), ma si sa, i gusti…
Scorro oltre e rimango sbalordito: al 58° posto c’è nientepopodimeno che Captain Beefheart col suo Trout mask replica! Ma allora, a che gioco stiamo giocando? Per chi non lo sapesse, questo disco è uno dei lavori più complicati, visionari, sovversivi di ogni regola che sia stato concepito nell’intera storia del rock. In parole povere un mattonazzo da una tonnellata, 78 minuti per 28 brani incredibili, complessi, folli in modo sublime, completamente sconnessi, che per alcuni è il più grande album rock di tutti i tempi, ma in una classifica che sacrifica completamente l’accessibilità all’innovazione, all’originalità e alla ricerca di nuove frontiere. Insomma, tutto il contrario di quanto detto prima a riguardo dei criteri adottati fin qua.
Allora cosa vogliamo fare? Sembrerebbe che i compilatori di questa lista si siano sentiti in dovere di inserire tra Madonna (4 album) e Eminem (3 album), pure qualcosa che gli permetta di dire che loro di musica ne sanno, esattamente come la foto di Paris Hilton con in mano questo CD.
Ma allora, se proprio volevamo fare i fighi, un Nick Cave tra il Greatest Hits di Elton John (135°) e gli U2 di All that you can’t leave behind (139°) non ce lo potevamo fare stare? Oppure, uno qualsiasi degli album dei Faust o dei Can, proprio non ce lo potevamo mettere? Magari subito dopo Faith di George Michael (480°), tanto per dire che di krautrock ne avevamo sentito parlare?
O ancora, visto che ci si fa belli col jazz (con pezzi da novanta quali, oltre a Miles Davis, pure Coltrane e addirittura il free-jazz di Ornette Coleman), anche una sola citazione di Weather Report o Soft Machine, non si poteva davvero fare? Magari assieme a Whitney Houston (254°), o anche subito dopo, per carità.
E poi, tornando al jazz vero e proprio, Charles Mingus, Keith Jarrett e Duke Ellington, per dire, ce li siamo dimenticati?

Pare che la spiegazione di questo minestrone di criteri di selezione, sia dovuto al modo in cui questa lista è stata stilata: “basata sui voti pesati di 273 tra musicisti rock, critici e esponenti dell’industria discografica, ognuno dei quali ha inviato una lista di 50 album”. Teste diverse insomma, e tante pure, e di queste molte interessate (chissà che trattamento avranno riservato i musicisti alle proprie opere o gli industriali ai cavalli della propria scuderia?) che hanno partorito questo inutile listone.
Data l’autorevolezza (a torto o ragione) data a questa testata ci sarebbe da fare anche un po' di dietrologia, ma, per non fare i complottisti, limitiamoci a dire che si tratta di una bella occasione mancata.

* E invece, facendo qualche giretto con Google, mi accorgo che il mio cavallo vincente è meno popolare di quanto pensassi, ma questo ha una sua logica evidente. Innanzitutto la mia visione distorta è dovuta al fatto che in fondo sono poche le risorse web a cui do veramente credito (per esempio questa o questa) e qui Rock Bottom non è in cima, ma poco ci manca, e poi effettivamente è da riconoscere che ha sicuramente venduto un numero minuscolo di copie rispetto a qualsiasi album presente in tutte le altre classifiche e questo sicuramente influisce sul suo successo nelle stesse.

21 settembre 2007

Animal Collective - Strawberry Jam

Nei miei trascorsi di “vorrei essere musicista” ho avuto modo di capire, tra le altre cose, quanto la scelta della copertina di un album sia un’operazione tutt’altro che banale. Insomma, quella è l’immagine che deve rappresentare tutto il contenuto e trattandosi normalmente di un insieme di 8-12 brani, che fino a quel momento erano solo musica, testi, ore di lavoro, prove, correzioni, idee geniali, frustrazioni, litigi, entusiasmi e pure immagini magari, ma talmente tante che poi a sceglierne una che le rappresenti tutte... e poi bisogna vedere se si trova nel formato giusto o se non è coperta da copyright… non è semplice, davvero.

Questa premessa è solo per parlare dell’ultimo degli Animal Collective, Strawberry Jam. Il punto è che mai come in questo caso copertina (qui sopra) e contenuto dell’album sono in sintonia davvero perfetta. Guardatela, un pasticcio di fragole schiacciate in una ciotola, immerse nel loro sugo, con le tonalità troppo scure dell’avanzata maturazione. Un piatto davvero difficile da presentare, poco invitante, di certo non gradevole allo sguardo. Eppure, ogni mamma lo sa, la frutta troppo matura, entro certi limiti, non è cattiva, anzi, è dolce, tenera, gustosa, solo bisogna sapere vincere il ribrezzo iniziale, poi, assaggiata a fatica la prima cucchiaiata, una porzione così può essere divorata in un baleno, con ingordigia.
E il disco in questione è decisamente dello stesso tipo: per stomaci forti, i suoni, le strutture dei pezzi, le armonie, i cori, tutto viene rappresentato in maniera davvero inusuale, a volte al limite del caotico, dello sgradevole. Però, facendo un po’ di fatica, avendo la pazienza di dargli credito, è un album meraviglioso, mai banale, che rivela una serie inesauribile di invenzioni, non un capolavoro forse, ma un gioiello sì.
Per chi non li conosce, gli Animal Collective sono un collettivo (e già utilizzare questo termine al posto dei più ordinari “gruppo” o “band” gli dà un aspetto meno coeso, disgregato) di New York, ma originario dell’immensa provincia americana, composto da personaggi che si chiamano Avey Tare, Panda Bear, Geologist, Deakin che fanno una musica originalissima, che non saprei come definire se non copiando e incollando quella che gli si dà di solito, Psych Folk, ben sapendo che però una descrizione del genere in realtà non descrive nulla.
Per quanto mi riguarda, questo gruppo ha inanellato 4 album magnifici, Here Comes the Indian (2003) , Sung Tongs (2004), Feels (2005) e appunto Strawberry Jam (2007) collocandosi così nella mia attuale top-five dei gruppi migliori sul pianeta.
Descrivere le differenze tra i vari lavori porterebbe via troppo spazio in questo post già prolisso, anche perché, e questo basti, la ripetitività non è certo una caratteristica dei nostri. In Strawberry Jam intessono delle trame sonore complicatissime, a volte quasi noisy, ma che con un po’ di attenzione rivelano un certo schema da cui scaturisce un ritmo, arzigogoli canori che alla fine rivelano un coro, con tanto di ritornelli e progressioni. E poi giocosi scherzi musicali che delineano l’aspetto più tradizionalmente psichedelico dell’opera.
Come al solito una descrizione come questa non descrive per nulla il contenuto di un disco (del genere poi!), ma se vi va di sentire cosa fanno, li trovate su MySpace, su YouTube e pure su Wikipedia. Almeno provateci.

17 settembre 2007

Fondamentalismo

fondamentalìsmo s.m. 2 CO tendenza a considerare la propria fede religiosa, politica e sim., fondamentale rispetto alle altre, applicandone i principi in modo rigido e intransigente: f. islamico

La scorsa settimana Lorenzo ha iniziato ad andare a scuola, prima elementare, anzi, scuola primaria. Vabè, questa non è la notizia, anche se ovviamente, nel nostro nucleo lo è eccome.

Il secondo giorno di scuola ha ricevuto i libri, 8 (otto!) e ripeto, fa prima elemen… primaria. E pure questa, pur essendo una cosa notevole non è la notizia.

Per questi otto libri non abbiamo pagato un centesimo. È così: scuola pubblica, scuola dell’obbligo, non si paga nulla eccetto i pasti.

Di questi 8 libri, e questa per me è la notizia, 4 erano dedicati all’I.R.C.!
(Cos’è l’I.R.C.? È l’Insegnamento della Religione Cattolica)

Infine, dettaglio da non trascurare, noi per Lorenzo avevamo chiesto l’esonero dall’IRC all’atto dell’iscrizione, cioè tra gennaio e febbraio.

Riepilogando: nella scorsa settimana oltre mezzo milione di bambini, indipendentemente dal fatto che abbiano scelto o meno di avvalersi dell’IRC, hanno ricevuto i libri scolastici e la metà di questa spesa è stata per l’IRC.
Ora, i restanti quattro libri trattano di Italiano, Matematica, Storia, Geografia, Scienze, Ambiente, Tecnologia. Ne consegue che in Italia, l’insegnamento della religione cattolica, almeno per quanto riguarda la distribuzione dei libri scolastici, ha un peso maggiore di qualsiasi altra materia.

Ma forse neppure questa è una notizia.

14 settembre 2007

Travolto da un insolito film

L’altra sera mi sono rivisto Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, film che avevo scioccamente inserito nella categoria mentale Trash italiano anni ’70, e mi sono accorto di avere sbagliato, ma veramente di tanto. Ho scoperto che invece si tratta di un gran film sul rapporto tra uomo e donna, tra proletariato e borghesia, tra maschilismo e femminismo (no, femminismo non è la parola giusta, lei si sente emancipata, ma in modo borghese, borioso, quell’emancipazione che deriva non dalla consapevolezza, pretesa e conquista di un uguaglianza, quanto da un’intrinseca superiorità che le danno il denaro e il potere).
E tutto sommato questo film rispecchia una società che non c’è più, una società divisa in classi. Attenzione, non sono le classi a non esserci più, eccome, ma l’accento che viene posto in questo film cade sulla divisione, sulla contrapposizione che si attua tra gli appartenenti ad esse e, cosa più importante di tutte, sulla consapevolezza di tutto ciò. Oggi sembra che questa tensione non esista più e ce ne si potrebbe pure rallegrare se questo fosse dovuto ad una sorta di pax sociale conquistata con cognizione, attivamente, invece che grazie all’ottundimento e all’illusione causata da falsi status symbol e da forme di oppio dei popoli sempre più raffinate.

Ma torniamo al film: i due protagonisti, Gennarino Carunchio (Giancarlo Giannini) e Raffella Pavone Lanzetti (Mariangela Melato), soprattutto all’inizio interpretano i rispettivi ruoli di borghese e proletario in maniera caricaturale, quasi da macchietta. Ma nel prosieguo del film acquistano via via spessore umano e passano dalla pura commedia a un ruolo drammatico senza mai cadere nel patetico, anzi, concedendo di tanto in tanto pur sempre la grassa risata che ora capisco avermi erroneamente fatto categorizzare male questo film.
Quando un'opera si incentra così strettamente su due soli personaggi, è poi fondamentale, per evitare di cadere nel banale, che questi siano dotati di tutte le sfaccettature di cui l’animo umano è naturalmente dotato, e si può dire che in questo caso l’operazione sia egregiamente eseguita. È appassionante l’evoluzione di Gennarino da riottoso sottoposto, a servizievole compagno di sventura, a ribelle (Spartaco! lo apostrofa la signora Raffaella), a padrone, ad amante esigente, ad amante supplichevole e infine a rivoluzionario sconfitto e tradito.
E lei, degna compagna in questo paso doble, lo accompagna egregiamente interpretando ruoli e stati d’animo sempre complementari ai suoi.

Pare che questo film non sia mai stato pubblicato in DVD (diversamente dal recente remake con Madonna e il figlio di Giannini, che sicuramente non vedrò), quindi tocca vederlo al volo quando viene saltuariamente programmato. Ma se vi capita, guardatelo, ne vale la pena.

11 settembre 2007

Joe Zawinul 1932-2007

A volte capitano delle coincidenze che, lasciandoti sconcertato a pensare ai due eventi che le compongono, sembrano avere il preciso scopo di farci assaporare meglio la vita.
Sempre più spesso mi capita di ascoltare dischi in modo un po’ troppo frettoloso, a causa del poco tempo che ho per dedicarmici e della bulimia musicale che mi costringe a cambiare troppo frequentemente i cd dentro al lettore. Ogni tanto però rinsavisco e mi costringo a prendere il fiato e ad andarmi ad ascoltare un disco a cui avevo dedicato poca attenzione. Uno di questi dischi è I sing the body electric, dei Weather Report.
La coincidenza è che, oggi, mentre lo ascoltavo per la terza volta di fila, è morto Joe Zawinul.

Non intendo descrivere ne' tantomeno recensire un disco così complesso, solo spalanco gli occhi increduli di fronte alla maestria con cui quest'uomo riuscì per tutta la sua vita a ordire raffinate e complicate trame musicali, dentro ogni disco, dentro ogni brano. E in questo cerco di bearmi di fronte alle incredibili invenzioni che lui e gli altri musicisti crearono 36 anni fa, un po’ in studio e un po’ dal vivo, a Tokyo, mi faccio trasportare dalle progressioni, dalle esplorazioni armoniche, dai voli pindarici, dai dialoghi (soprattutto tra lui e Shorter) che fanno di questo disco un vero capolavoro, uno di quei miracoli che solo dei veri artisti, come lui era sicuramente, sono in grado di produrre.

E mi sa che non lo tolgo ancora dal lettore, Joe si merita un altro ascolto.

7 settembre 2007

STATELESS - s/t

Poche volte mi è capitato come in questo caso di oscillare tra giudizi così opposti in merito ai dischi. Come mia personale regola empirica concedo sempre tre ascolti completi ad un cd prima di formulare un giudizio, almeno nei casi appena un po’ più intricati, perché sono più che conscio della mia lentezza ad entrare nello spirito del lavoro. E in genere, soprattutto se si tratta di lavori anche solo leggermente difficili, il primo ascolto è quello dello smarrimento, quello in cui mi chiedo “Ma che cazzo è ‘sta roba?”. Nonostante questo, però porto a termine l’ascolto, poi, dopo avergli lasciato il tempo di sedimentare, lo riascolto. A questo punto, superata la sorpresa iniziale, incomincio ad apprezzarlo, se è il caso. Il terzo ascolto è infine quello del giudizio finale, quello necessario per i dischi più ostici, quello al termine del quale mi posso trovare addirittura ad applaudire. Letteralmente: mi capita davvero di farlo, di mettermi a battere le mani ammirato alla fine di un disco. Il bello è quando lo faccio in macchina, magari in mezzo al traffico.
L’indice di gradimento durante tutto questo processo ha comunque un andamento generalmente lineare: parto dal disappunto per arrivare all’entusiasmo, oppure mi mantengo sul livello ‘gran cagata’ per tutte le fasi, o in qualche caso resto folgorato fin dal primo approccio e rimango ammirato per tutti gli altri ascolti (questo caso è raro, e fa parte del mio limite: in genere quello che mi piace al primo colpo tende ad annoiarmi e a perdere di valore in breve tempo).

Stavolta invece l’andamento del mio personale indice di gradimento è stato oscillante: all’inizio mi sono detto, “ecco una scopiazzatura dei Coldplay (ed è tutto dire…) in salsa elettronica”, quindi pollice verso. Poi ho fatto caso ai ritmi inusuali, alla batteria suonata davvero bene, al buon gusto negli arrangiamenti e al fatto che la voce, pur con un timbro troppo simile a quello di Chris Martin, ha una duttilità e un’estensione notevole. Ok, mi sono detto, bella scoperta, buon acquisto. E così ne ho pure fatto regalo (masterizzato) a mia sorella.
Poi dopo averlo regalato l’ho ascoltato ancora una volta e sono rimasto sconcertato dalla pochezza delle linee melodiche, che soprattutto nei ritornelli (non si sfugge mai dalla forma-canzone) tende veramente al banale.
Ero quindi deciso a scriverne un post al vetriolo, e ho pensato che fosse il caso di farlo rinfrescandomi la memoria, così ho incominciato a scriverne ascoltandolo in cuffia e finalmente ho trovato la sua collocazione giusta: da sottofondo. Non è un gran pregio questo: essere un buon album “da sottofondo” è una tipizzazione che rasenta l’offesa, ma per questo disco rappresenta invece una rivalutazione, al punto che, lasciandolo fluire senza dedicargli troppa concentrazione, rimane l'impressione di stare sentendo qualcosa di delizioso, che provoca tiepide e piacevoli sensazioni.

Insomma, un buon, anzi, ottimo album da sentire, molto meno da ascoltare. Non so se mi spiego.

Spari nel mucchio

Immaginiamo questa scena:
un docente si trova alle prese con una platea molto vasta e piuttosto indisciplinata. Riconosciuta la sua incapacità ad ottenere silenzio ed attenzione, estrae dal cassetto una pistola, la solleva in alto e dichiara all’uditorio finalmente ammutolito:
-Se continuate a fare questo baccano, farò fuoco verso uno qualsiasi dei casinisti. Solo uno, con tutti gli altri non adotterò alcun provvedimento.

Naturalmente si può scommettere che in un caso del genere il simpatico docente riuscirebbe ad ottenere il silenzio e l’attenzione desiderata, oltre ovviamente a successive grane e magari un bel ricovero in adeguata struttura. Ma voglio sottolineare tre punti di questa favoletta:

- l’incapacità a fare rispettare una semplice regola di convivenza
- la sproporzione della pena
- la sua casualità nell’applicazione

A me questa storiella ricorda molto una comune prassi adottata dalle nostre parti: quella di non essere in grado di fare rispettare norme che già esistono, quindi, giunti per vari motivi ad esasperazione (in genere a causa di fatti di cronaca e di relativa indignazione popolare), inasprire enormemente le pene e infine continuare ad effettuare controlli di fatto rarissimi, che castigano in maniera sproporzionata chi viene estratto dalla lotteria della sfiga. Colpirne uno per educarne un milione, insomma.

Mi sto riferendo in particolare alle nuove disposizioni relative alla guida in stato di ebbrezza. Di controlli ne fanno pochissimi, ma se ti beccano dopo una birra, ti rovinano l’esistenza.

4 settembre 2007

JOANNA NEWSOM & THE YS STREET BAND E.P.

(come se fosse una recensione…)
L’incantevole Joanna pubblica a meno di un anno da Ys questo EP che nel titolo (ma solo in quello) si permette di fare il verso nientemeno che a sua maestà The Boss. Si tratta di un CD con tre canzoni, una inedita e le altre due tratte dai suoi precedenti LP, per un totale di 24 minuti che in fondo non aggiunge niente di sostanzialmente nuovo alla meraviglia che mi aveva regalato Ys.

Di fronte a queste operazioni mi trovo in genere ad essere un po’ prevenuto, e mi chiedo, quale sia l’incontenibile urgenza artistica di pubblicare un EP a ridosso di un album così complesso e articolato. Il primo sospetto è quello che si cerchi semplicemente di trarre congruo profitto dall’ultima gallina dalle uova d’oro del panorama indie, che naturalmente non è affatto esente da logiche di marketing e da vili inquietudini di tipo commerciale. O forse l'eterea Joanna si trova in questo momento nella fortunata posizione di indie-star con relativo stuolo di cortigiani pronti e solerti ad esaudire ogni suo capriccio, quale per esempio quello di dare alle stampe un’altra esibizione della sua originalissima arte.

All’interno dell’EP un foglio scritto a mano funge da libretto con testi, credits, ringraziamenti e note dell’autrice. Queste ci dicono che le registrazioni sono il frutto di una tre giorni in studio durante la quale i brani sono stati registrati live facendo uso oltre dell’inseparabile arpa di Joanna, pure di strumenti quali la tambura, la sega musicale (musical saw), il banjo e l’accordion.

Il primo brano, Colleen, è l’unico originale dell’EP. È quello che si direbbe ormai un tipico pezzo Newsomiano, fatto di complicate melodie interpretate dalla strana voce della Newsom, l’accompagnamento dell’arpa e, al posto degli archi di Van Dyke Parks, gli strumenti di cui sopra.

Ancora una volta, e forse più che mai, si avverte l’intrigante contrasto tra arrangiamenti e suoni di stampo antico e un incedere del cantato e dell’armonia che in certi passaggi ha un’impronta rock molto tesa, non facilmente definibile, ma sicuramente molto moderna.

Il secondo pezzo, Clam, Crab, Cockle, Cowrie, ripreso da The milk eye bender è più tipicamente folk, dall’incedere lento e con tanto di controcanto maschile.

Infine Cosmia (notare l’enigmatica insistenza sulla lettera C nei titoli), pescata dall’ultimo LP, è il brano in cui si avverte più nettamente la dimensione pseudo-live della registrazione. Rispetto all’originale il brano dura circa il doppio (più di tredici minuti) con una lunga coda strumentale in cui si coglie il piacere che questi musicisti devono avere provato nel suonarlo insieme e nel giocare a sfumarlo, portandolo a minimalismo fino al silenzio.

Insomma, alla fine l’impressione su questo EP è più che buona e fuga l’iniziale mia diffidenza, collocandosi come più che degna continuazione di Ys. Ad esso per la verità non aggiunge molto, arrangiamenti diversi, non in maniera radicale, ma comunque interessanti (e per conto mio il fischio della musical saw è incantevole).

A questo punto sorge la solita domanda che ogni buon disco propone: cosa farà ora la Newsom? Ha trovato la sua formula perfetta o ci sorprenderà ancora? Con questo EP non l’ha fatto, ma in fondo… è solo un EP.