31 ottobre 2007

Robert Wyatt - Comicopera

È un disco che ho comprato quando da queste parti ha iniziato a piovere. Da allora praticamente non ha più smesso, e io non ho più smesso di ascoltarlo.
L’imprescindibile Pitchforkmedia dice che Wyatt ha la voce più triste del rock. Non sono d’accordo, c’è sicuramente di peggio (Scott Walker?), ma effettivamente il tono delle sue corde vocali si adatta perfettamente al clima grigio e autunnale di questi giorni di fine ottobre.
Per chi non lo conoscesse (ma chi viene a leggere qui le mie cose ne ha già fin troppo sentito parlare, tanto da rendermi quasi passibile di fanatismo), Robert Wyatt non è un ragazzino e non è neppure uno di quelli che quando fa musica affronta la cosa alla leggera. Stiamo parlando di uno splendido sessantenne, ammirato e adorato da tutto il settore più impegnato del panorama musicale mondiale, autore e coautore di capolavori che hanno fatto la storia del rock, di quelle persone a cui la vita ha dato e tolto pesantemente, che ne ha forgiato l’estro in modo sublime, nel bene e nel male.
Quando uno ha una simile biografia sulle spalle, è inevitabile che ad ogni sua uscita il pubblico adorante si aspetti una nuova rivelazione, un’altra lezione. Ed è pure inevitabile che chi è gravato di tante aspettative tenda a nicchiare: in una recente intervista Wyatt dichiara che lui dà un peso relativamente basso alla sua musica, che gli dedica impegno ed attenzione solo quando compone e registra, per poi disinteressarsene completamente tutto il resto del tempo.
Ma allora, al di là del personaggio, su cui ci sarebbero davvero tantissime cose da dire e scrivere, com’è sto disco?
Quasi bellissimo.
Mi spiego meglio: contiene 16 brani per un’ora esatta di musica. È diviso in tre sezioni (o atti), che contengono ognuna episodi piuttosto eterogenei, anche se si può grossolanamente dire che la prima è la più wyattiana vecchia maniera, con quelle melodie che sfuggono sempre dalla prevedibilità proprio quando sembra di averne intuito la direzione, la seconda parte è la più folk, nel senso globale del termine, con accenni dylaniani, caraibici, swing e contiene quello che secondo me è uno dei momenti più alti del disco, Out of the blue (che non è affatto folk). Il terzo atto abbandona infine l’inglese per spaziare da una cover dei nostrani C.S.I. (Del Mondo, è strano sentire cantare l’italiano in questo modo), una Cancion de Julieta che musica un testo di Lorca e un omaggio al Che Guevara, ancora in spagnolo con accenni di rumba. Questa scelta, ha dichiarato lui stesso, ha a che fare col suo “sentirsi completamente alienato dalla cultura Anglo-Americana”.
Che dire, dunque? Tanto di cappello ancora una volta di fronte a tanta bravura. Il “quasi” del mio lapidario giudizio più sopra è dovuto ad alcuni (tre, non di più) brani di livello più basso della media decisamente alta del resto del disco.

Infine: per un po’ sono stato dibattuto se mettere come al solito l’immagine della copertina o un primo piano di Wyatt, tanto trovo intenso il suo volto. Faccio entrambe le cose, su la copertina, qui sotto il ritratto.

29 ottobre 2007

Dietrologie

die|tro|lo||a s.f. CO ricerca, talvolta esasperata, dei fatti occulti che starebbero dietro a un evento o di quanto si nasconderebbe dietro le azioni e le parole altrui

Qualche volta sono inquietanti, a volte sono offensive, a volte curiose, in certi casi infine, sono pure divertenti.
Se avete voglia, andatevi a vedere The Diana-Morrissey Phenomenon. Si spiega, con incontrovertibili fatti alla mano, di quelli che non lasciano adito a dubbi, che il leader dei rimpianti Smiths aveva previsto tutto sulla morte di Diana.

Sono cose che fanno riflettere…

26 ottobre 2007

Pro Halloween

La festa di Halloween non mi è mai stata molto simpatica. Le ragioni sono in fondo piuttosto banali, le solite insomma: è un’americanata, è una festa per i commercianti, non ha niente a che vedere con la nostra cultura e via con le ovvietà.
Ammetto che però, a causa dei bambini, ormai è un paio di anni che , volente o nolente, ne sono coinvolto. Niente di che, però in casa in questi giorni circolano già zucche e piccole mostruosità in preparazione di una festa che si terrà mercoledì a casa di uno dei loro amichetti.
Per i bambini delle ultime generazioni infatti Halloween è una festa che c’è e basta. Per loro c’è sempre stata, non come quelli della mia leva per cui Halloween una volta non esisteva (tutt’al più era il titolo di una serie di b-movie horror), e ce lo siamo visto introdurre con tenacia senza che nessuna opposizione avesse il minimo effetto. E quindi di sicuro non mi metterò a fare il brontolone coi miei figli cercando di oppormi ai loro travestimenti e al loro buffo “Dolcetto o scherzetto?”.

Oggi poi ho scoperto una motivazione in più per farmi piacere questa festa. Leggete un po’ questa cosa:

Halloween: sacerdote genovese
invita
ad obiezione di coscienza

«Halloween è pedofilia esercitata in campo morale, psicologico, spirituale, mentale, senza violentare il corpo». L’allarme è stato lanciato da don Marino Bruno, insegnante di religione e parroco della chiesa di Santa Maria delle Nasche, in un lungo articolo pubblicato oggi sul settimanale cattolico di Genova «Il Cittadino».

Ora, senza entrare in tematiche troppo delicate (ma su cui ho opinioni nettissime), direi che oggi come oggi un prete dovrebbe, almeno per buon gusto, cercare di evitare di usare la parola “pedofilia” come accusa a qualcun altro. Ma al di là di questo, mi chiedo, con che coraggio si può accostare una festa, per quanto sciocca, consumista o frivola alla pedofilia? Guardate che non sono parole dette di slancio, magari dette durante una predica infervorata, sono parole scritte, meditate. Da accapponare la pelle.

E poi prosegue:

«c’è un abisso tra Halloween ed il carnevale: i mandanti di questo `carnevale d’ottobre´ sono gli stessi che stanno cercando di bombardare, con stile politically correct, la religione in sé e quella cattolica in particolare».
I mandanti, per don Bruno, sono «esoterismo, lobby politiche e filosofiche» che «lavorano per svitare il senso del sacro ed il rispetto che gli si deve» e che hanno quali «prede preferite i bambini».

(l’articolo completo è qui)

Cioè, io già mi sentivo un po’ scemo a pensare che a spingere per il successo di Halloween ci fossero degli astuti commercianti, che, riuniti in incognito in una località segreta, ordiscono trame subliminali, manovrano i servizi dei telegiornali, falsificano le statistiche, tutto all’insegna del motto “Halloween è cosa buona e giusta e ci porterà un sacco di profitti”.
Ora però scopro che ci sono addirittura dei mandanti, e questi sono “esoterismo e lobby filosofiche” (lasciamo perdere la politica, che non capisco che c’entri).
Ma mi chiedo: che cazzo sono ‘ste lobby filosofiche? Una volta facevano i simposi, elucubravano, discettavano, ora organizzano feste con maschere da vampiri?

Ah, vorrei sottolineare ancora una cosa: don Marino Bruno fa l’insegnante di religione. Un punto in più alla mia scelta di non avvalermene per l’educazione dei miei figli.

24 ottobre 2007

Classifiche - 2

Oggi pubblico la seconda delle classifiche che abbiamo fatto in ufficio. Questa si chiama “Le NOSTRE pietre miliari” e ovviamente io pubblico la mia versione.
È sicuramente la più personale delle classifiche che abbiamo fatto, perché riguarda non solo i nostri gusti, ma pure la loro evoluzione nel tempo. Mi spiego: l’obiettivo è quello di indicare i dieci album che hanno segnato una tappa importante nella nostra vita (dal punto di vista musicale si intende, non è necessario citare il disco che c’era in sottofondo la prima volta che abbiamo fatto l’amore), a partire dai primi ascolti fino a oggi.
Come tutte le classifiche, il difficile, soprattutto per chi ha ascoltato molta musica, è selezionarne solo dieci. Stilandola mi sono infatti accorto di avere dovuto trascurare un sacco di cose veramente importanti. Vabbè, questo fa parte del gioco.
Una nota: l’anno indicato non è quello di pubblicazione, ma quello in cui l’album è entrato nella nostra vita. A volte coincidono, spesso no.

1. Kiss - Destroyer [1978] Ero un bambino i, per cui mi sembra incredibile, ma il trucco è che io avevo un fratello maggiore che ascoltava ‘sta roba. Era un vero fan di questa band, per cui la nostra cameretta si era riempita di poster e album con i quattro personaggi con la faccia dipinta e i vestiti mostruosi. In effetti era questo aspetto estetico ad affascinarmi, ma in sottofondo c’era la musica, che permetteva a me e ai miei amichetti a loro volta fratelli minori, di darci un tono pazzesco in classe.

2. AC/DC – Back In Black [1980] Sempre a traino di mio fratello, scoprii questo album con la copertina tutta nera e che iniziava con quella campana a morto. Poi la voce strillata di Brian Johnson e la chitarra (che chitarra!) di Mr. Angus Young. Fu lì che scoprii che il rock è bello pure (e soprattutto) quando è sporco e cattivo.

3. Duran Duran – Rio [1983] Con i precedenti di cui sopra sarei potuto diventare un metallaro doc. Invece, si sa, a quell’età sono gli ormoni ad avere il sopravvento, e la musica per le feste del sabato pomeriggio era quella con le maggiori possibilità di successo.

4. The Cure – Pornography [1985] La musica da DeeJay TV (si chiamava così il programma che trasmetteva i video musicali un eone fa) stancava in fretta. Trovai rifugio a lungo nel filone dark. Era abbastanza laterale da permettermi un’aria eccentrica, ma non troppo da essere escluso dal consesso sociale. I Cure furono il primo gruppo di cui acquistai tutto, discografia, video, spartiti, testi, bootleg…

5. David Sylvian – Secrets of the beehive [1989] Scoprii questo elegante e raffinato artista e me ne innamorai perdutamente. Ascoltai questo disco (e gli altri a nome suo) migliaia di volte. A lungo temetti di essermi cacciato in un vicolo cieco. Non riuscivo a trovare più niente che fosse alla sua altezza.

6. Nirvana – Nevermind [1992] Riuscii ad uscire dall’impasse cambiando completamente genere e tornando al rock fatto con chitarre distorte e urla roche. Cavalcai una moda, non mi voglio attribuire nulla di originale, ma questo disco fu davvero (ed è tuttora) una combinazione pressoché perfetta di rabbia, energia, ribellione e tormento. Da urlare a pieni polmoni.

7. Portishead – Dummy [1996] Mi mancavano gli struggimenti adolescenziali che avevo cullato con i Cure. Questo disco me li fece ritrovare in una forma molto più matura, più noir che dark, ma con l’introduzione di sonorità nuove, l’uso di campionatori e dei loops e quei ritmi dilatati e indolenti.

8. Radiohead – Kid A [2000] “L’unico gruppo che fa ancora cose interessanti”, così me lo descrissero. Si sbagliavano a dire che era l’unico, ma di cose interessanti ne facevano davvero (quest’album e gli altri loro). Un modo molto più audace di usare l’elettronica, senza troppe concessioni all’ascoltabilità.

9. !!! – Louden up now [2004] È stato con un disco come questo che ho scoperto l’esistenza dell’inesauribile e ricchissimo universo indie. Per meglio identificare questa mia pietra miliare, avrei dovuto scegliere non uno, ma almeno 20 album, tanto è stata prolifica questa svolta. Questo però disco li rappresenta egregiamente: accattivante, intenso, originale, suonato con passione da non-rockstar. Una vera epifania.

10. John Coltrane – A love supreme [2005] Avevo sempre corteggiato da distante il jazz, senza mai riuscire a farmelo piacere davvero. Forse era il momento sbagliato per me o forse erano i dischi sbagliati. Con questo mi si è invece aperto il mondo profondissimo e sorprendentemente vario del jazz. Ora non sono di certo né un esperto né un appassionato, ma innamorato si. Ancora il rapporto non è maturo, ma c’è tempo…

23 ottobre 2007

Guardare la Terra mentre respira

Normalmente non mi piace fare linking nel mio blog (quella cosa che consiste nel fare un post segnalando semplicemente un collegamento ad una pagina web), ma questa volta il sito di Breathing Earth mi è talmente piaciuto che farò un’eccezione.
Si tratta di una sola pagina che mostra una carta del pianeta. Di ogni nazione sono riportati tre dati: il tasso di natalità, il tasso di mortalità e il tasso di emissione di CO2. In base a questi dati, ogni volta che nasce un bambino in un paese, compare un piccolo sole, ogni volta che muore una persona compare un cerchietto grigio e quando trascorre il tempo necessario al paese per emettere 1000 tonnellate di CO2, il paese si colora di rosso.
Guardarlo per qualche minuto è impressionante. Tutti sappiamo cosa significano la nascita e la morte, sono eventi sconvolgenti che quando toccano qualcuno a noi vicino assumono proporzioni enormi. Guardando questo mappamondo sembra di assistere in diretta al verificarsi continuo di questi avvenimenti in ogni parte del globo.
E poi il tasso di emissione dell’anidride carbonica. È meno comprensibile, capiamo meno cosa significa, ma almeno si intuisce che ogni volta che un paese si illumina di rosso, viene riversata nell’atmosfera una quantità enorme (100 tonnellate sono una bella cifra, di gas, poi…) di gas dannoso all’ambiente.
Un ultima considerazione: l’Italia è uno dei pochi paesi (assieme alla Germania, altri non ne ho trovati) a tasso di natalità negativo, cioè muore più frequentemente una persona (ogni 52 secondi) di quante ne nascano (una al minuto).
Che cosa triste.

Io per conto mio cerco di invertire la tendenza…

19 ottobre 2007

Il regista di matrimoni

In “La casa del sonno”, godibile libro di Jonhatan Coe, uno dei protagonisti, aspirante sceneggiatore cinematografico, viene strapazzato da un produttore americano, entusiasta ammiratore di film quali Ghostbuster o action-movies alla James Bond, perché il preteso intellettualismo di certo cinema europeo sarebbe la causa della morte del cinema nel nostro continente.
A mio avviso questa opinione è un’emerita stronzata, perlomeno in termini generali, ma di questo non vorrei che venisse fatto responsabile Coe, che, anzi, dipinge egregiamente l’atteggiamento di chi crede nella visione “all’americana” del cinema, che spesso confonde la qualità con il successo di cassetta.
Il film in oggetto però, diretto da Marco Bellocchio e interpretato tra gli altri da Sergio Castellitto (coppia che si era già collaudata in L’ora di religione), sembra essere costruito apposto per dare ragione al produttore americano.
Parte bene, niente da dire, o meglio, parte come potrebbe partire un film che poi si rivela mediocre (ma almeno guardabile) presentando i personaggi pian piano, senza essere troppo didascalico inserendo qua e la qualche luogo comune, ma riuscendo comunque a coinvolgere lo spettatore nella trama.
Poi, man mano che si prosegue, tra un montaggio lisergico e una sceneggiatura studiata apposta per non capire mai se quello che vedi sia sogno, realtà, immaginazione, presente o passato, il film si scolla definitivamente da una linea comprensibile, e si rivela uno sfoggio intellettualistico che in realtà cerca solo di dissimulare il fatto che altrimenti la trama sarebbe una banale storiella di crisi personale che sfocia in una storia d’amore.

Insomma, non dico che a questo punto sia meglio un film di scazzottate, sparatorie e inseguimenti, ma di sicuro certe prove servono a confermare l’associazione film europeo=film inguardabile sostenuta dal produttore americano. Film del genere fanno male, innanzitutto a chi li guarda, e ci spende soldi e tempo, e poi anche a tutto il cinema, non solo al cinema in generale che a questo punto per reazione non può fare altro che appiattirsi verso gli schemi più consolidati del cinema da blockbuster, ma in particolare a quello europeo. O meglio, visto che non credo che il resto d’Europa voglia farsene carico (ricca com’è di film godibilissimi e non banali), si limita a fare male al cinema delle nostre parti. Come se ce ne fosse ancora bisogno.

16 ottobre 2007

Lucio Battisti – Don Giovanni

Era il 1986 e Lucio Battisti aveva abbandonato da dieci anni le scene. Stava alimentando in maniera sempre più efficace l’immagine di un artista distante, misterioso ed altero, capace di resistere senza tentennamenti alle lusinghe dello show-business che l’avrebbe allettato in tutti i modi fino alla fine, non riuscendo ad ottenere neanche lo straccio di un rifiuto. Solo silenzio.
In quel periodo di vita ritirata aveva pubblicato gli ultimi album in coppia con Mogol e nell’82 lo sfortunato E già, scritto a quattro mani con la moglie (che ancora si dibatte se non fosse invece scritto a due sole mani, quelle di Lucio). Poi la sua strada incrociò quella di Pasquale Panella altrettanto schivo poeta romano, e nacque Don Giovanni.
È un album che nelle sonorità sente molto il peso degli anni, soprattutto nell’uso del sintetizzatore i cui suoni inquinarono quasi tutta la produzione musicale di quel periodo, ma pure in quello del sax che ogni tanto fa capolino con un pesante riverbero da mettere i brividi (di raccapriccio). [Nota a margine per gli aspiranti immortali: se vuoi durare a lungo, non essere alla moda.]
Fatta la tara a questa apparenza vintage però, l’album in sé è ancora oggi di una bellezza rara, anche commovente in certi suoi aspetti.
Inizia con uno dei momenti più belli, una cascata di note di pianoforte (no, non è un piano, è il sinth, mannaggia…) e poi attacca Le cose che pensano, cerebrale e moderna canzone d’amore, che fin dalle prime strofe nega l’amore stesso:
In nessun luogo andai
per niente ti pensai
e nulla ti mandai
per mio ricordo
e poi avanti, insistendo sulla rima in –ai (guardai, ghiacciai, abbracciai, inguaiai, stai, fai…) e quindi sui passati remoti, evocando il ricordo e il rimpianto nelle cose che la rammentano.
Il secondo brano (Fatti un pianto) è un magnifico calembour giocato su una melodia leggera, che snocciola una serie di immagini sentimental-culinarie sempre sorprendenti:
Da un chilo di affetti un etto di marmellata
Se sbatti un addio c'esce un'omelette
E poi, sempre qui, Battisti (Battisti!) che si difende dall’accusa di non essere romantico:
E tu dici ancora che non parlo d'amore
Batte in me un limone giallo, basta spremerlo
Poi il disco prosegue in episodi un po’ minori (Il doppio del gioco, Madre pennuta, Equivoci amici), ma comunque godibilissimi , per arrivare all’episodio più alto dell’album, la title track. È la struggente confessione di Don Giovanni, che oscilla tra la consapevolezza e il dolore del proprio ruolo che gli impone di essere sempre superficiale:
rivesto quello che vuoi
son l'attaccapanni
Poi penso
che t'amo
no, anzi,
che strazio.
Don Giovanni è a disposizione, interpreta il ruolo che vuoi, ma poi non appartiene a nessuno, ed è una pena sentirgli infine dire
che sono
l'inganno.
Sinceramente non tuo - sinceramente non tuo.
E la musica, che musica!, soprattutto gli archi, che danno un colore drammatico alla confessione del protagonista, fino a quell’accenno di progressione finale che invece di sbrodolare in uno sguaiato crescendo sanremese, rientra dopo un attimo, per terminare nella domanda che Don Giovanni ,rialzando dignitosamente la testa, rivolge a noi perbenisti:
Qui Don Giovanni, ma tu, dimmi, chi ti paga?
Trascurare gli ultimi due episodi è ingiusto, soprattutto per l’ancora una volta suggestiva Il Diluvio finale, ma dopo l’emozione di Don Giovanni, stentano a lasciare il segno.

Per me questo disco è una sorta di madeleine proustiana, tanto è la perseveranza con cui l’ascoltai oramai tanti anni fa. Possiede la straordinaria capacità di rievocare stati d’animo sepolti nei ricordi più lontani che ha solo la musica che più abbiamo amato. Tutto il mio entusiasmo per questo disco potrebbe essere quindi solo una questione di nostalgia, ma anche cercando di astrarmi continuo a vederlo ancora come uno dei lavori più intensi della musica italiana.
Di certo fu un momento molto alto nel panorama non certo entusiasmante della nostra produzione musicale di quegli anni. La musica aveva una certa pretesa di internazionalità, grazie anche agli arrangiamenti di Greg Walsh e Robin Smith, ma fu soprattutto il suo intrecciarsi con quei testi incredibili, mai sentiti fino ad allora, a dargli uno status di pietra miliare difficilmente discutibile.

15 ottobre 2007

Chicago Underground Trio – SLON

Cosa sarebbe successo se Miles Davis fosse sopravvissuto al suo stile di vita eccessivo e fosse giunto fino ai giorni nostri?
Da tempo vagheggiavo una contaminazione tra elettronica “come si deve” e jazz “come si deve”, ma finora ero sempre rimasto deluso dalla pochezza di almeno uno dei due ingredienti: jazz decente su elettronica da quattro soldi o viceversa. Per cui nei miei sogni proibiti immaginavo il Genio ancora vivo a darci l’ennesima lezione su come si possa innovare ancora una volta il jazz, questa volta intrecciandolo con macchine e samples, glitch, loop e sequencer.
Poi ho letto un articolo su Rob Mazurek e i suoi innumerevoli progetti e ho incominciato a sperare che quell’ibrido che andavo immaginando si fosse realizzato. Veramente non ho mai avuto il dubbio che qualcuno lo avesse fatto, solo che è uno di quegli argomenti che fai fatica a scovare, in genere le risposte che riesci a recuperare sono intorno a quel cosiddetto nu-jazz che sinceramente mi annoia terribilmente, quando proprio non mi irrita nelle sue derive fighetto-lounge.
Però immaginavo che un’idea così ovvia non potesse non avere dei validi interpreti, in fondo siamo nell’era delle infinite possibilità, l’unico limite è la fantasia e la mia tutto sommato non è che sia straordinaria.
Non è facile trovare in giro i CD di Mazurek e soci, pur nelle molteplici denominazioni che i suoi lavori assumono (Chicago Underground Duo, Chicago Underground, Exploding Star Orchestra, Sao Paulo Underground,…) per cui è rimasto un appunto nella mia lista di CD da comprare per diversi mesi, fino a che ho finalmente trovato SLON nel reparto Alternative di Fnac. Va da sé che non ho manco guardato il prezzo (mento: erano circa 15 euri, ma non mi importava) e l’ho comprato.
Per certi versi ho trovato quello che stavo cercando: dal punto di vista del jazz il livello è decisamente buono e pure il lato elettronico è di tutto rispetto. Mazurek suona la cornetta con uno stile hard-bop molto moderno e utilizza il laptop per la parte digitale. Assieme a lui suonano Chad Taylor alla batteria e Noel Kupersmith al contrabbasso e pure lui al laptop. Le composizioni sono tutte originali e spaziano da un jazz suonato in modo classico arrivando alla musica per solo laptop, passando ovviamente per la sovrapposizione dei due generi.
È tutto di buon livello, l’unica cosa che mi spiace è che i momenti veramente ibridi siano pochi nel complesso, concentrati sostanzialmente in due brani (Slon e Zagreb) con qualche accenno in un altro paio, poi si rimane coi piedi ben piantati su una o l’altra sponda.
In sostanza un buon disco con dentro jazz e elettronica, ma meno miscelati tra loro di quanto mi aspettassi (o che sperassi).
Non so quindi se Miles Davis avrebbe fatto questo disco se fosse arrivato dopo il 2000 con la grinta di un tempo (tanto più che tromba e cornetta sono simili, ma non proprio la stessa cosa), ma quel paio di brani me lo hanno davvero ricordato. E per quanto mi riguarda questo è un gran complimento.

11 ottobre 2007

Radiohead - In Rainbows

(poi la pianto con ‘sta storia)
Allora, alla fine l’ho ascoltato e per me si tratta di una mezza delusione. I Radiohead sono uno dei pochi gruppi contemporanei di cui posso dire di conoscere abbastanza bene tutta la discografia e di loro apprezzavo soprattutto l’evoluzione e il coraggio di certe scelte. Mi spiego meglio: sono partiti nel 1993 con un album così così (Pablo Honey), poi uno migliore ma ancora ordinario due anni dopo (The Bends) e quindi hanno fatto il botto nel 1997 con Ok Computer, album acclamato dalla critica come capolavoro e che gli ha dato anche una gran fama commerciale (“mette d’accordo critica e pubblico”, si dice, no?). Poi nel 2000, quando avrebbero potuto sancire definitivamente il successo con un album da primo in classifica, se ne escono con un disco (Kid A) decisamente meno accessibile, fatto di brani elettronici, sconnessi e astratti. Bellissimo album a mio avviso, ma obiettivamente coraggioso, di quelli che rischiano di farti voltare le spalle da tanta di quella gente che, fatti i conti economici, devi proprio avere una bella passione per continuare su quella strada. E invece l’anno dopo pubblicano Amnesiac, album gemello di Kid A (registrato nelle stesse sessioni) che ribadisce la direzione presa.
Nel 2003, con Hail to the thief, sembrano fare un passo indietro, ritornando a schemi più melodici, più strutturati verso la forma-canzone, ma pur rimanendo in un ambito ancora piuttosto lontano dagli schemi più banali.
A questo punto ero curioso di capire da che parte sarebbero andati con l’album seguente, se avrebbero confermato il “rientro nei ranghi” di Hail to the thief o se avrebbero invece di nuovo scartato di lato come avevano fatto nel 2000.
Nel frattempo esce The Eraser, (2006) album solista di Thom Yorke. È un lavoro orientato verso il pop, con sonorità elettroniche, ma, al di là dell’arrangiamento, abbastanza ordinario. Belle canzoni, ottimi suoni, ma niente di troppo inusuale.
E poi ieri esce finalmente il nuovo album. E scopro che quello che pensavo essere solo un diversivo del leader (The Eraser) costituiva invece l’anteprima dell’album di tutta la band. Mi sembra infatti che questo giochi esattamente sullo stesso terreno: canzoni dall’anima pop impostate su strutture ritmiche e sonore complicate, con ampio uso di elettronica.
Intendiamoci: non ho nulla contro il pop, anzi, però mi pare una scelta molto più semplice di altre fatte dagli stessi protagonisti. In altre parole, dopo avere dimostrato audacia nel cercare di deviare dal sentiero pop, ora ci sono rientrati.

Allora perché all’inizio ho detto di avere provato solo una mezza delusione? Perché anche se si tratta “solo” di pop, si tratta di pop davvero ben fatto, una serie di canzoni molto molto belle, curate, ben suonate e ben arrangiate.
Quindi se vi interessa un disco senza eccessive pretese innovative, ma belloveramentebello, allora potete anche affrontare la spesa. Tanto più che, ancora oggi il prezzo… it’s up to you!

10 ottobre 2007

È arrivato

In Rainbows è arrivato stamattina alle 7.48, annunciato da mail con link diretto per il download. 10 brani in mp3 a 160 kbps (potevano anche fare qualcosina in più). Ho esitato un po' prima di cliccare sul link, temevo che l'affollamento del server creasse problemi, poi invece quando ho deciso di provare, ho scaricato uno zip in tempi ottimi, senza problemi.
Ora lo sto ascoltando.
Primissima impressione: deriva pop.
Approfondirò.

9 ottobre 2007

Parcheggio

Oggi sono per il buon umore... (guardare con l'audio aperto, se no non ne vale la pena).
Qui lo si usa per darsi una sferzata di allegria nei momenti grigi.

Geniale

Trovo strepitosa questa battuta, per come viene detta e per tutte le allusioni maschilistico – sessuali che implica in poche parole. La dice Robert De Niro nei panni di Paul Vitti in Terapia e pallottole (Analyze this), film, al di là di questo, del tutto irrilevante.
Allora, per chi non lo sapesse, in questo film De Niro interpreta un boss mafioso che decide di entrare in analisi presso il Dott. Sobel (Billy Cristal). In una delle varie sedute affrontano la questione della relazione extraconiugale del boss:

Dott. Sobel: Che è successo con sua moglie l’altra sera?
Paul Vitti: Non ero con mia moglie, ero con la mia amante
Dott. Sobel: Ha dei problemi coniugali?
Paul Vitti: No
Dott. Sobel: E allora perché ha un’amante
Paul Vitti: Hey, stai cercando di fare il moralista con me?
Dott. Sobel: No, sto solo cercando di capire. Perché ha un’amante?
Paul Vitti: Con lei faccio le cose che non posso fare con mia moglie
Dott. Sobel: Perché non può farle con sua moglie?
Paul Vitti: Ma che, sei matto? Quella è la bocca che bacia i miei figli tutte le sere!

Pure i NIN

Non credo che si siano ancora fatti i conti definitivi e non so se mai verranno resi pubblici. Ma continuo a pensare che la trovata dei Radiohead porterà nelle tasche di Thom Yorke e soci più soldi di quanti ne farebbero vendendo in maniera tradizionale il loro album.
E sembra che pure Trent Reznor dei Nine Inch Nails la pensi così:

08 October 2007: Big News
Hello everyone. I've waited a LONG time to be able to make the
following announcement: as of right now Nine Inch Nails is a totally
free agent, free of any recording contract with any label. I have
been under recording contracts for 18 years and have watched the
business radically mutate from one thing to something inherently very
different and it gives me great pleasure to be able to finally have a
direct relationship with the audience as I see fit and appropriate.
Look for some announcements in the near future regarding 2008.
Exciting times, indeed.


(dal sito NIN)

5 ottobre 2007

Keith Jarrett - The Köln Concert

Già solo a raccontare come andarono le cose quel 24 gennaio 1975 si sfiora il mito. Per Keith Jarrett quella era stata una di quelle giornate di merda che non vedi l’ora che sia finita, altro che dare tutto se stesso e prendersi rischi davanti a un pubblico da tutto esaurito.
La sera prima aveva suonato a Losanna e dopo il concerto era partito in macchina col suo produttore alla volta di Colonia, un viaggio di quasi 700 chilometri (poi uno dice della splendida vita dei musicisti, tutta donne, agio e champagne). Arrivati a Colonia raggiunsero l’albergo dove tentarono di riposare qualche ora, ma nessuno dei due riuscì a chiudere occhio, per la troppa stanchezza, l’orario sballato e pure, naturalmente, la tensione per il concerto che si sarebbe svolto la sera all’Opera Haus.
Già, l’Opera Haus: nel pomeriggio Jarrett fu informato che quella sera sul palco non avrebbe trovato uno Steinway gran coda.
Ora, non è che chiunque al mondo sia tenuto a conoscere il fatto che Jarrett suona sullo Steinway, ma se sei l’organizzatore di un suo concerto di solo piano lo devi sapere e, cascasse il mondo, te lo devi procurare, non c’è storia. Anche perché il carattere di Mr. Jarrett era già famoso nel 1975 e l’essere accomodante non era certo una sua caratteristica (come non lo è tuttora!).
Io immagino lo stato d’animo del suo produttore (Manfred Eicher, tra l’altro fondatore dell’ECM, gloriosa etichetta jazz), nel cercare di rabbonire quell’artista riottoso, dicendogli che il comune di Colonia aveva deciso di mettere a disposizione due Bösendorfer di cui uno in eccellenti condizioni. Chissà se per rassegnazione (quando uno è stanco cala pure il suo spirito combattivo) o perché comunque il Bösendorfer è uno splendido strumento e non è il caso di fare tanto gli schizzinosi, fatto sta che Keith Jarrett acconsentì.
Però il caso, la sfiga, o anche la cattiva organizzazione nonostante si tratti di Germania, ci mise ancora il suo malevolo zampino. Vai a capire perché, quando il pianoforte fu scaricato dal furgone e montato sul palco, ci si accorse che dei due Bösendorfer era stato recapitato quello sbagliato. E mentre uno era stato definito eccellente, l’altro si scoprì non essere neppure in mediocri condizioni, era proprio messo male, bassi senza vigore e acuti striduli, pare che non fosse neppure stato revisionato di recente (sembrava un piano da barrelhouse ha detto lui stesso). Di buono rimanevano solo i toni medi. Jarrett era sconsolato, lasciò che il piano venisse preparato sul palco dai tecnici e andò a cena.
Lì ci fu la goccia che avrebbe fatto traboccare qualsiasi vaso, tranne, per nostra fortuna, quello della pazienza di Keith Jarrett quella sera. Mangiarono in un ristorante italiano, caldo in modo eccessivo (era gennaio ed evidentemente il riscaldamento funzionava a pieno regime). Della tavolata di una decina di persone lui fu servito per ultimo (avete presente quando tutti gli altri ricevono i loro piatti e voi, coi crampi allo stomaco e il nervoso che cresce, dite, “no, no, non mi aspettate, iniziate pure, che vi si fredda”?). Ricevette il piatto poco prima di dovere partire per l’Opera, e si ingollò in fretta e furia per non fare ritardo. E il cibo era pure pessimo!
Arrivati all’Opera erano quasi decisi a non registrare, poi cambiarono idea: era tutto pronto, perché no? Poi al limite la si sarebbe buttata via.

E invece, nonostante tutte queste premesse (riepilogando: poco sonno, viaggio, niente riposo, non il solito pianoforte, pianoforte mal messo, cattivo cibo e di corsa), ne venne fuori un concerto meraviglioso, un’ora di improvvisazione fuori da ogni genere (definirlo solo jazz sarebbe addirittura riduttivo), nella quale perdersi estasiati.
L’inizio del concerto è interlocutorio, Jarrett prende le misure dello strumento, ne valuta, già improvvisando, le caratteristiche, i pregi e soprattutto i difetti. Poi poco per volta il rapporto tra uomo e piano si scioglie, si distende, e la musica decolla verso le vette che hanno reso famoso e inimitabile questo musicista. Dalla seconda parte in poi si delinea quello che è per gran parte l’approccio a quel concerto: la mano sinistra esegue un accompagnamento ossessivo, ipnotico, mentre la destra vola improvvisando sostenuta da quella potente base ritmica. Il finale è poi di nuovo più melodico, la quiete dopo la tempesta e ricalca schemi più tipicamente jazz.
Si dice che non sia il migliore concerto inciso da Keith Jarrett, ma sicuramente è un disco bellissimo, da consigliare, da regalare, da ascoltare ogni volta che si vuole assistere all’opera di un grande artista.

2 ottobre 2007

Scacco alle case discografiche

Questa è davvero una gran trovata, niente da dire. Tra i fan (e non) c’è molta attesa per il nuovo album dei Radiohead, previsto per quest’autunno.
I 5 ragazzi di Oxford fino ad oggi (compreso) sono sempre stati piuttosto in gamba a creare suspense intorno alle loro uscite. Segreti, voci di corridoio, file mp3 che giravano in rete chissà come, impressioni dai concerti… Tutti ingredienti abbastanza diffusi, pure con le uscite di Eros Ramazzotti, per dire.
Questa volta però hanno fatto una mossa in più: il loro album non uscirà nei negozi, o almeno non lo farà fino al 3 dicembre. In compenso, a partire dal 10 ottobre sarà reso disponibile in formato digitale su questo sito al costo di… OFFERTA LIBERA!
Proprio così, si va sul sito, si sceglie la versione download dell’album, ci si registra e si paga (con carta di credito) l’importo che si vuole (it’s up to you!, sta a te, dice il sito). Intorno al 10 ottobre si dovrebbe ricevere una mail con codice di attivazione e istruzioni per il download.
In alternativa si può scegliere la versione Discbox dell’album che consiste in una scatola contenente il CD vero e proprio, 2 versioni in vinile heavyweight dello stesso, un altro CD con altre canzoni inedite foto digitali e artworks, più un libro con testi e foto. Il tutto alla cifra di 40 sterline. Questo se ho ben capito dovrebbe essere pure ciò che si troverà nei negozi a partire dal 3 dicembre.

In pratica i Radiohead, che hanno concluso il loro contratto con la Capitol (EMI) nel 2003, hanno deciso di farne proprio a meno, di una casa discografica. Ciò significa che ogni singolo centesimo che verrà pagato in questo modo, andrà a finire completamente nelle loro tasche, senza essere sfrondato da produttori, distributori, negozianti, trasportatori, nani e ballerine. Non so quanto sia normalmente il prezzo intascato normalmente dal gruppo per ogni CD venduto, ma sarei pronto a scommettere che sia inferiore a quello che verrà pagato mediamente per ogni download.
E poi c’è la questione del Discbox: se proprio ci tieni all’oggetto fisico, puoi averlo assieme a tutta una serie di gadgets che non c’è filesharing che tenga, il vinile non viaggia via p2p. Per conto mio potevano anche produrre una versione “solo CD nel solito formato” a un prezzo più ragionevole, io avrei scelto quella. Ma secondo me prima o poi spunterà anche lei nei negozi.

Ma la cosa fondamentale rimane per me l’offerta libera. Quanto vale un pacchetto di file mp3 (presumo, il formato non è specificato)? iTunes e company dicono 10$ o 10 euro. Secondo me sono eccessivi, considerando che per quella cifra spesso trovi il CD su Amazon, ma a giudicare dalla quantità di file che vendono, per molta gente sono ragionevoli. Io, colto da meraviglia per l’iniziativa, ho pagato 2 sterline (3 euri) e in cambio per ora ho ricevuto una mail. Molti dicono di avere pagato tra i 5 e i 10 dollari. Ognuno di noi alla fine è contento, pensa di avere pagato il giusto, prova ammirazione per una band che non fa la sostenuta (nonostante ne abbia a parer mio i meriti) dicendo “volete ascoltare la nostra musica? Bene, pagate 20 euro o niente”, magari inventandosi pure diavolerie tipo DRM, lucchetti digitali, sistemi anticopia che fanno solo incazzare chi ha speso in buona fede i propri soldi senza di fatto fermare minimamente il filesharing.
Si creano un alone di onestà, di correttezza, dando fiducia agli ascoltatori (non ho provato, ma forse si può anche pagare un centesimo: poco male comunque, quel centesimo sarebbe profitto netto per i Radiohead).

Dopo Prince che distribuisce il proprio ultimo album con i quotidiani, ora ci si mettono pure loro a dare spallate agli aspetti più vetusti del mondo della musica. In alto i calici!

1 ottobre 2007

Invece che il calcio

Sabato sera, come non mi capitava ormai da parecchio tempo, mi sono dedicato anima e cuore all’assistere ad un evento sportivo. Lo sport in questione anch’esso non è propriamente una mia abitudine, si trattava infatti di rugby e in particolare della partita tra Italia e Scozia, partita che metteva in palio l’accesso ai quarti di finale del mondiale che si sta svolgendo in Francia.
Per questo evento avevo deciso di coltivare una delle mie occasionali passioni. “Deciso” e “passione”, lo so, sono termini che mal si accoppiano, ma io ogni tanto lo faccio: capisco o scopro che un certo argomento è degno della mia attenzione, e inizio ad approfondire, a informarmi, fino scovare un entusiasmo che effettivamente è difficile che diventi passione bruciante, ma molte volte si consolida almeno in un solido interesse. Magari prima o poi scriverò delle altre mie infatuazioni estemporanee.

Tornando al rugby, in previsione di questa partita mi sono documentato leggendo “L’arte del rugby”, un agile libercolo di un certo Spiro Zavos, giornalista sportivo neozelandese, dove questo sport è molto più che una passione: è uno scopo di vita per un intero popolo. In questo libro, oltre ad alcuni tratti di storia, aneddoti, memorie e memorabilia, c’è un introduzione al gioco e al suo regolamento. Questa sezione in particolar modo è stata per me utilissima, per due motivi fondamentali: primo perché ne sapevo davvero un po’ troppo poco, e non c’è niente di più frustrante che assistere a qualcosa senza capire cosa sta succedendo, e poi perché viene detto che in fondo pure il più grande realizzatore di mete della storia, David Campese , ha confessato di non conoscere a fondo tutte le leggi (nel rugby ci sono leggi, non regole) di questo sport. E che anzi, queste leggi, cito testuale, “come in ogni sistema democratico, non si è tenuti a conoscerle tutte. Per chi guarda e chi gioca (non per chi arbitra) è sufficiente avere assimilato i principî della Costituzione del gioco”. E questo mi ha messo la coscienza a posto e mi ha convinto che avrei potuto guardare e godere una partita anche senza sapere con precisione il perché di ogni fischio dell’arbitro.
Così sabato sera era pronto, ho dovuto sistemare alcuni dettagli logistici (la RWC, Rugby World Cup, 2007 la danno solo su Sky), ma poi mi sono concesso questo spettacolo.
Come dicevo si trattava dell’ultima partita per l’Italia e la Scozia nel girone preliminare dell’RWC, e chi avesse vinto sarebbe passato ai quarti di finale. Il pareggio nel rugby non è contemplato. Cioè, capita, ma non viene preventivato, sarebbe impossibile, si gioca per la vittoria.
La Scozia era avanti di due punti in classifica, e ciò, unito alla tradizione e al fatto che su nelle Highlands un’eventuale sconfitta sarebbe stata vissuta come una disfatta nazionale, metteva l’Italia nella posizione sì di sfavorita, ma pure con molto meno da perdere, e questo si sa, può essere un vantaggio.
Da quando è iniziata la partita fino all’ultimo minuto sono stato in tensione appollaiato sul bordo del divano come non mi capitava da un sacco di tempo. Il rugby è uno sport micidiale oltre che per le ossa di chi lo pratica, pure per i nervi di chi lo guarda: velocità, capovolgimenti di fronte, lotta strenua su ogni pallone, battaglia vera in ogni azione. Di fatto la melina è impossibile: la legge dice che il giocatore senza palla è intoccabile, ma chi ha in mano quell’ovale di cuoio è bersaglio supremo e senza scampo di tutta la squadra avversaria. E stiamo parlando di atleti da più di un quintale l’uno. E velocissimi, pure. Quindi il gioco è frenetico, sempre sull’orlo dell’errore (questo soprattutto perché sabato sera a Nancy pioveva, e la palla era una saponetta, e il campo sembrava ghiacciato), un campo che prima dell’inizio sembrava grande, poi occupato perfettamente dalle due squadre sembra talmente piccolo che in molte occasioni le azioni si dovevano concentrare in un corridoio di un metro lungo le linee laterali e davano l’impressione che se lo spazio fosse stato il doppio, il triplo, un chilometro, ancora la foga di quei 30 atleti enormi non si sarebbe accontentata.
Per me c’è stata una meta da balzare in piedi urlante, errori da sbattere i pugni sui braccioli, azioni da spingere in avanti proteso verso lo schermo. Per loro ottanta minuti vissuti senza risparmiare un briciolo di energia e di coraggio, tesi continuamente senza tregua verso l’obiettivo: quella riga bianca laggiù, in fondo al campo, oltre alla diga di muscoli e furore della squadra avversaria , dove andare a depositare finalmente la palla.

È poi finita 18 a 16 per la Scozia, a pochi secondi dalla fine l’Italia ha pure avuto l’occasione, remota ma concreta, di agguantare il vantaggio, ma un tiro da quasi 50 metri è passato a meno di un metro dal bersaglio, quei pali strani che ricordano come il rugby sia un evoluzione del calcio. Per quanto mi riguarda, visto pure lo stato del calcio, soprattutto dalle nostre parti, una strepitosa evoluzione.