16 ottobre 2007

Lucio Battisti – Don Giovanni

Era il 1986 e Lucio Battisti aveva abbandonato da dieci anni le scene. Stava alimentando in maniera sempre più efficace l’immagine di un artista distante, misterioso ed altero, capace di resistere senza tentennamenti alle lusinghe dello show-business che l’avrebbe allettato in tutti i modi fino alla fine, non riuscendo ad ottenere neanche lo straccio di un rifiuto. Solo silenzio.
In quel periodo di vita ritirata aveva pubblicato gli ultimi album in coppia con Mogol e nell’82 lo sfortunato E già, scritto a quattro mani con la moglie (che ancora si dibatte se non fosse invece scritto a due sole mani, quelle di Lucio). Poi la sua strada incrociò quella di Pasquale Panella altrettanto schivo poeta romano, e nacque Don Giovanni.
È un album che nelle sonorità sente molto il peso degli anni, soprattutto nell’uso del sintetizzatore i cui suoni inquinarono quasi tutta la produzione musicale di quel periodo, ma pure in quello del sax che ogni tanto fa capolino con un pesante riverbero da mettere i brividi (di raccapriccio). [Nota a margine per gli aspiranti immortali: se vuoi durare a lungo, non essere alla moda.]
Fatta la tara a questa apparenza vintage però, l’album in sé è ancora oggi di una bellezza rara, anche commovente in certi suoi aspetti.
Inizia con uno dei momenti più belli, una cascata di note di pianoforte (no, non è un piano, è il sinth, mannaggia…) e poi attacca Le cose che pensano, cerebrale e moderna canzone d’amore, che fin dalle prime strofe nega l’amore stesso:
In nessun luogo andai
per niente ti pensai
e nulla ti mandai
per mio ricordo
e poi avanti, insistendo sulla rima in –ai (guardai, ghiacciai, abbracciai, inguaiai, stai, fai…) e quindi sui passati remoti, evocando il ricordo e il rimpianto nelle cose che la rammentano.
Il secondo brano (Fatti un pianto) è un magnifico calembour giocato su una melodia leggera, che snocciola una serie di immagini sentimental-culinarie sempre sorprendenti:
Da un chilo di affetti un etto di marmellata
Se sbatti un addio c'esce un'omelette
E poi, sempre qui, Battisti (Battisti!) che si difende dall’accusa di non essere romantico:
E tu dici ancora che non parlo d'amore
Batte in me un limone giallo, basta spremerlo
Poi il disco prosegue in episodi un po’ minori (Il doppio del gioco, Madre pennuta, Equivoci amici), ma comunque godibilissimi , per arrivare all’episodio più alto dell’album, la title track. È la struggente confessione di Don Giovanni, che oscilla tra la consapevolezza e il dolore del proprio ruolo che gli impone di essere sempre superficiale:
rivesto quello che vuoi
son l'attaccapanni
Poi penso
che t'amo
no, anzi,
che strazio.
Don Giovanni è a disposizione, interpreta il ruolo che vuoi, ma poi non appartiene a nessuno, ed è una pena sentirgli infine dire
che sono
l'inganno.
Sinceramente non tuo - sinceramente non tuo.
E la musica, che musica!, soprattutto gli archi, che danno un colore drammatico alla confessione del protagonista, fino a quell’accenno di progressione finale che invece di sbrodolare in uno sguaiato crescendo sanremese, rientra dopo un attimo, per terminare nella domanda che Don Giovanni ,rialzando dignitosamente la testa, rivolge a noi perbenisti:
Qui Don Giovanni, ma tu, dimmi, chi ti paga?
Trascurare gli ultimi due episodi è ingiusto, soprattutto per l’ancora una volta suggestiva Il Diluvio finale, ma dopo l’emozione di Don Giovanni, stentano a lasciare il segno.

Per me questo disco è una sorta di madeleine proustiana, tanto è la perseveranza con cui l’ascoltai oramai tanti anni fa. Possiede la straordinaria capacità di rievocare stati d’animo sepolti nei ricordi più lontani che ha solo la musica che più abbiamo amato. Tutto il mio entusiasmo per questo disco potrebbe essere quindi solo una questione di nostalgia, ma anche cercando di astrarmi continuo a vederlo ancora come uno dei lavori più intensi della musica italiana.
Di certo fu un momento molto alto nel panorama non certo entusiasmante della nostra produzione musicale di quegli anni. La musica aveva una certa pretesa di internazionalità, grazie anche agli arrangiamenti di Greg Walsh e Robin Smith, ma fu soprattutto il suo intrecciarsi con quei testi incredibili, mai sentiti fino ad allora, a dargli uno status di pietra miliare difficilmente discutibile.

0 commenti: