31 luglio 2009

Martin Pollack - Assassinio del padre

A quanto ne so l’ha inventato Truman Capote con il suo In A Cold Blood (A sangue freddo). Si tratta del genere detto “nonfiction novel”, cioè un romanzo che narra una vicenda realmente accaduta, ma non prendendone semplicemente lo spunto, proprio facendone una cronaca dettagliata. Però rimanendo un romanzo, quindi cercando in ogni caso di costruire la narrazione in modo scorrevole e avvincente, evitando di ridursi ad una fredda cronaca pur cercando di non uscire mai in alcun modo dai binari dei fatti reali.
In questo libro si racconta di un caso giudiziario che appassionò l’opinione pubblica prima in Austria (dove si svolsero gli eventi e i processi) e poi in tutta Europa.
In poche parole: durante una camminata in montagna, Morduch Halsmann muore apparentemente in seguito ad una caduta. Subito però, visti alcuni particolari strani, viene accusato di omicidio il figlio Philipp, suo unico accompagnatore in quell’escursione.
Si dà il caso poi che Philipp sia ebreo e che nell’europa germanica in quel periodo stiano nascendo (o meglio: rinforzandosi) quei sentimenti antisemiti che di lì a pochi anni avrebbero portato all’Olocausto.
Il processo si svolge quindi in un’atmosfera continuamente tesa con l’imputato che sembra essere suo malgrado coinvolto in una disputa più grande di lui. Sulla sua testa si svolge infatti una partita strategica tra chi vuole la sua assoluzione e quindi, oltre a confrontarsi sul piano meramente processuale, accusa gli avversari di antisemitismo e cerca di porsi al riparo dal sospetto di far parte del complotto sionistico e chi chiede la testa dell’imputato, accusa gli avversari di essere parte di quel complotto mondiale che vuole portare la razza ebraica a dominare il pianeta e contemporaneamente cerca di sfuggire all’insinuazione.
Il processo è infatti indiziario, non ci sono prove certe che chiaramente accusino o scagionino Philipp, per cui la battaglia è soprattutto strategica, giocata sull’equilibrio della sensibilità di interi popoli.
Il caso a quei tempi in Europa ebbe una vasta risonanza, tanto da essere considerato un nuovo affaire Dreyfus e coinvolse alcune tra le massime personalità dell’epoca, tra cui Eric Fromm, Albert Einstein, Sigmund Freud.
Poi le cose da quelle parti precipitarono in un inferno ben più atroce e quella vicenda venne in qualche modo rimossa fino a farne perdere memoria.

L’imputato, Philipp Halsmann, trasferitosi prima in Francia e infine negli Stati Uniti, dove francesizzò il suo nome in Philippe Halsman, divenne poi uno dei più importanti fotografi del mondo, ma di quella vicenda non volle mai più parlare, quasi volesse anche lui rimuoverla dal suo passato.
Martin Pollack, per motivi casuali che spiega nell’epilogo del libro, si interessò al caso e decise di farne una ricerca accuratissima che poi è sfociata nella scrittura di questo libro.
È una lettura sicuramente interessante e avvincente, che ben disegna quel che era l’Europa ottant’anni fa. A volte i dettagli giuridico-processuali sono a mio avviso troppo precisi, ma probabilmente chi è più addentro o interessato a questa materia, troverà pane per i suoi denti.

Concludo con una splendida immagine della splendida Audrey Hepburn scattata dal protagonista della vicenda qualche decennio dopo. Non sto certo qui a rivelare il finale del libro, ma queste immagini parlano da sole.

24 luglio 2009

Carambola

In vacanza, trascinato dal primogenito, mi sono ritrovato a tirare a carambola, un gioco a cui non mi avvicinavo da... tipo 20 anni!
Ovviamente un disastro, solo in parte attenuato dal fatto che Lorenzo, nonostante la sua passione, è ancora troppo piccolo per questi giochi. Non ci arriva, non riesce a reggere la stecca come si deve, non ha ancora abbastanza coordinazione...
Insomma, posso ancora fare il gradasso con lui.
Ma invece faccio proprio schifo, e questo, immeritatamente, mi porta a pensare che non sia un bel gioco, che sia una cavolata.
Poi vedo queste cose qua e ammutolisco:

22 luglio 2009

A tramp like us

Alla fine ci sono andato, e devo ammettere che è stata un’esperienza memorabile.
Sto parlando del concerto di Springsteen di ieri sera, che si è svolto a Torino allo Stadio Olimpico e a cui ho assistito accompagnato (o meglio, trascinato, leggi dopo) dalla mia consorte.
Dico “devo ammettere” perché in effetti qualche prevenzione negativa nei confronti di questo evento ce l’avevo. Vado ad elencarle:
1. concertone: sono anni che non assisto più a concerti “big”, per diversi motivi, anche abbastanza banali, tipo il costo esagerato, la distanza “disumanizzante” dall’artista laggiù sul palco, la pigrizia (non amo le lunghe e sfibranti attese) e così via.
2. rock troppo classico: la musica di Springsteen, per quanto abbia tutta la mia stima, non mi piace. Trovo che sia un rock troppo banale, che sai sempre dove va a finire, che ne hai già ascoltati a tonnellate. E quindi, avendolo ascoltato poco, non conosco le canzoni. E questo, aggiunto alla probabile acustica problematica, preannunciava anche un po’ di noia.
3. odore di bollito: il boss ha 59 anni, l’età giusta per sedersi sul portico di casa, contemplare il tramonto fumando la pipa e componendo musica riflessiva e intima, tipo teatro-sgabello-chitarra-armonica-e-voce, non da cavalcate side-to-side su palchi negli stadi. Temevo di beccare un sessantenne che imita il se stesso di 30 anni prima

Però dei concerti del Boss me ne hanno sempre parlato bene. Anzi di più: me ne hanno parlato in termini entusiastici o addirittura mistici. Conosco gente che si è vista decine di suoi concerti (manco fossero i Nomadi, il cui costo del biglietto è dell’ordine di un decimo), in giro per il mondo e nella stessa tournee, ripetendo, quasi fosse un rituale, tutta la faticosa trafila che precede e segue la partecipazione allo show in sé.
E allora, per una volta, proprio perché avrebbe suonato praticamente sotto casa mia, ho fatto lo splendido e ho comprato la coppia di bigliettoni.
Così ieri sera mi sono trovato assieme ad altre 33mila rinchiuso dentro il pentolone dell’Olimpico ad aspettare e poi ad assistere alle gesta del Boss e della E Street Band..
E mi sono divertito. E pure un sacco.
Quindi mi tocca smentire i punti di cui sopra:
1. la questione del “concertone” in realtà continua a valere a pieno. Quello per me non è il modo di vivere la musica live. Alla fine lo spettacolo lo guardi più che altro nei mega-schermi a lato del palco, allora tanto vale… Certo, a meno di non essere tra quelli che si ritrovano sotto il palco, allora lì è tutta un’altra storia, ma io non ho più voglia ne’ energie per exploit del genere. Comunque tanta è la forza di Springsteen, che questi aspetti negativi vangono in parte attenuati
2. è vero, è rock stra-sentito e muffoso. Però buona parte di quello che si è già sentito lo si deve proprio a lui, alla sua inesauribile vena compositiva, che effettivamente è sempre un po’ legata dentro certi schemi, ma lì dentro ci sta davvero alla grande. In altre parole: il genere continua a non stuzzicarmi un granché, ma ieri sera, a vederlo suonato in quel modo (vedi punto successivo), mi ha divertito tantissimo.
3. e qui perdonatemi il francesismo: bollito un cazzo! Io giuro di non avere mai visto niente del genere: 3 ore (180 minuti!) tirati sempre al massimo, senza una pausa, neanche per pisciare, con un’energia pazzesca, una passione genuina e contagiosa. Mi sono ritrovato a pensare più volte che sembrava che quello dovesse essere l’ultimo concerto della sua vita, quello in cui dai tutto, tanto poi è finita. E invece domani è di nuovo sul palco a Udine, a correre come un matto, a gettarsi tra la gente, a cantare con quella voce roca da cui non ti aspetteresti niente più che un coro da stadio, e invece sono canzoni trascinanti una dietro l’altra.
Ecco. Alla fine saltavo e cantavo (qualcuna in effetti la so, eh) come uno sciroccato, come non mi capitava da tanto e come non so quando e se mi capiterà di nuovo.
Poi dopo il concerto, a casa con le orecchie che ancora fischiavano, mia moglie mi raccontava di quel concerto dell’88 quando il Boss aveva 20 anni di meno e ancora più energia (per quanto mi sembri impossibile). E allora ho compreso ancora di più che cosa trascina quei matti irriducibili che sono alcuni suoi fan.

Beh, alla fine, oltre ad essermi diverto tantissimo e ad inserire il concerto di ieri “tra i più belli della mia vita”, posso dire di avere in parte capito (non condiviso eh, solo capito, e solo in parte) quella passione sfrenata di quei fan irriducibili di cui dicevo sopra. La partecipazione ad un concerto così non è solo ascoltare musica live, è un esperienza trascinante e davvero coinvolgente, tanto da essere quasi faticosa. E dico “quasi” perché non intendo minimamente paragonare quella del pubblico all’energia bruciata da Springsteen.
Pazzesco.

17 luglio 2009

Mariposa - s/t

Questa volta temo proprio che a dichiarare di avere fatto una scoperta musicale non ci faccio una bella figura, perché tutto sommato i Mariposa sono in giro già da diversi anni e sono pure abbastanza famosetti. Tanto che il nome lo conoscevo, ma tra una cosa e l’altra alla fine non avevo mai ascoltato niente di loro.
Ora invece mi sono avventurato in questo loro nuovo album omonimo e devo dire che sono stato davvero ben impressionato. Voglio dire, mi aspettavo qualcosa di tipo folk allegrotto e invece ho trovato un prog molto moderno, che in effetti ha qualche contaminazione folk, ma solo una spruzzata qua e la, nulla di determinante.
I testi sono quasi tutti in italiano, ma sono strampalati, onirici e surreali, per cui tutto sommato non c’è molto discorso da seguire, eppure alla fine ti sembra che un senso ce l’abbiano e di certo contribuiscono non poco all’atmosfera creata dalla musica.
La musica dicevo, è una commistione di generi, difficile da identificare. Grossomodo diciamo che si tratta di pop-rock-prog molto ben suonato e orchestrato. Poi le sfumature cambiano parecchio da brano a brano e pure all’interno degli stessi. Tanto che alla fine l’ascolto del disco potrebbe pure risultare un po’ difficilotto, se non fosse che i cali di tensione sono davvero rari e tutto il lavoro mantiene un bel tiro dall’inizio alla fine.
Prima di scrivere questo post mi chiedevo a chi avrei potuto regalare o consigliare questo disco. Ora penso che tutto sommato lo potrei consigliare a chiunque abbia voglia di ascoltare qualcosa di ben fatto senza la pretesa di trovare nella musica sempre solo il proprio genere preferito. Ché qui un genere ben definito non c’è e quindi nessun monomaniaco ne verrebbe fuori bene. Tutti gli altri, quelli un tantino più elastici, sì, ne rimarranno piacevolmente colpiti.
A me è andata così.
E intanto mi sto procurando gli altri precedenti album del gruppo. Vi farò sapere.