23 dicembre 2007

Missione compiuta

E' col petto gonfio d'orgoglio che posso annunciare che Venerdì 21 alle 10.53 è nato Francesco, il mio terzogenito.
Ci dovrebbero essere tantissime cose da dire, ma mi sembra che ognuna di esse non sarebbe in grado neanche lontanamente di descrivere quello che provo.
Mi affido alla vostra immaginazione.

19 dicembre 2007

Sto per fare un certo passettino...

Come sa chi mi conosce personalmente, nei prossimi giorni avrò qualche piccolo impegno, per cui temo che per un po' non aggiornerò il blog.
Penso che ci si rileggerà nel 2008, ma se mi riesce cercherò di farmi vivo prima.
Citando il buon Truman sulla soglia della porta che lo introduce alla sua nuova vita: "Buongiorno! E nel caso non dovessimo rivederci, buon pomeriggio, buona sera e buona notte!"

17 dicembre 2007

Sulla regina d'Inghilterra


Non so se avete mai pensato alla regina di Inghilterra. Personalmente, ma penso di essere in gran compagnia, praticamente mai. O meglio, chissà quanto tempo fa mi ero inoltrato in qualche ragionamento o discussione o lettura da cui scaturiva l’assurdità di un’istituzione costosa ed inutile come quello della monarchia, e questo me l’aveva cristallizzata in una visione negativa che di fatto non avevo mai sottoposto a verifica. Più che altro perché proprio non me ne fregava nulla.
Fino a un mese fa.
Nelle mie visioni serali di film registrati mi sono infatti imbattuto in The Queen, il film di Stephen Frears che narra in giorni vissuti appunto dalla regina Elisabetta II nell’immediato della morte di Diana. Il tema forte è quello della caparbietà con cui la famiglia reale riesce a rimanere altezzosamente distante dal dolore popolare di quei giorni, a lungo refrattaria ai richiami di stampa e istituzioni democratiche (Tony Blair, allora appena nominato primo ministro, in testa) a mostrare segni di umana pietà per la scomparsa della ex principessa.
Oltre a questo però, il film dipinge efficacemente il ritratto del carattere della regina, talmente aristocratico e superiore da non riuscire neanche più antipatico. Fa tornare in mente che l’etimologia della parola snob è sine nobilitate, senza nobiltà, cioè quell’atteggiamento di chi, non essendo effettivamente di sangue nobile, deve assumere pose di disprezzo e soprattutto di distacco dalla plebe, come unico mezzo per non essere mai confuso con essa.
La conseguenza è che la regina di Inghilterra, una delle persone di lignaggio aristocratico più alto del mondo, non può essere snob. E nel film questo si nota bene: la regina è colta, misurata, elegante, ma pure dotata di senso pratico, usa la borsa dell’acqua calda, guida la jeep, non si trattiene dal darsi della stupida quando rimane in panne.
Sarà forse perché a me la storia di Diana ha sempre dato la nausea per la sua sdolcinatezza a 360 gradi, ma alla fine Elisabetta finisce pure con lo starmi simpatica.

Dopo il film mi è capitato di trovare in libreria l’ultimo libro di Alan Bennet, La sovrana lettrice, che racconta sempre di lei, ma questa volta alle prese con l’infatuazione per i libri, sindrome che io conosco abbastanza bene, ma che ovviamente lei si ritrova a vivere in maniera regale (uncommon dice il titolo del libro in lingua originale).
Anche in questo caso il tema forte del racconto (perché poco più di un racconto si tratta, una novantina di pagine) è quello dell’impatto sugli affari della famiglia reale di questa nuova e irrefrenabile passione della sovrana, ma l’aspetto che più mi ha conquistato è la descrizione del suo stile di vita al di sopra di tutto e di tutti mettendo l’accento sulla naturalezza di questa sua superiorità. Per esempio, tra le tante considerazioni, si descrive il fatto che pur essendo una persona che per il suo ruolo ha viaggiato forse più di chiunque altro nel mondo, lei non ha mai e poi mai dovuto dedicare un solo pensiero alla preparazione dei bagagli. Ma, e qui si torna al discorso di sopra, non per un suo snobismo che le farebbe dire “Io di queste questioni non mi voglio occupare”, bensì per il semplice fatto che lei non l’ha mai fatto, un esercito di servitori se ne occupa per lei e lei non è tenuta a preoccuparsi del lavoro che implica ogni suo spostamento, c’è un altro esercito di persone, a partire dal consorte, pronta al dissuaderla dal farlo.

Ora, per finire, voglio precisare come stanno realmente le cose, perché è giusto dare a Cesare quel che è di Cesare: il merito della gradevolezza di film e libro vanno ovviamente ai rispettivi autori. Entrambi inglesi hanno saputo non solo cogliere e trasmettere con garbo e intelligenza gli aspetti più tipicamente british delle vicende narrate.
A questo proposito un’annotazione in più per Alan Bennett: i suoi libri vengono definiti come spassosi, divertentissimi. A me queste descrizioni lasciano sempre stupefatto: per quanto trovi gustosi e piacevoli i suoi libri, non riesco mai ad andare oltre un lieve sorriso; pure cercando di immedesimarmi nelle situazioni, pur cercando di dipingere meglio che posso nella mia mente i personaggi che le vivono, il massimo che riescono a strapparmi è un’increspatura del labbro, un lieve sbuffo che altera il ritmo della respirazione.

Questo è umorismo, signori, genuine british humor.

12 dicembre 2007

Addobbi

Si sa che la paternità implica una tale assunzione di responsabilità da proiettare chiunque sia dotato di un minimo di buon senso nell’età adulta più efficacemente di un teletrasporto di Star Trek. La contropartita è che in particolari occasioni si torna ad essere autorizzati a rivivere infantili entusiasmi per i quali, se uno non avesse l’alibi dei figli, dovrebbe provare almeno un minimo di imbarazzo.
Così sabato scorso, come da tradizione consolidata da ben 6 anni, abbiamo addobbato la casa per il Natale, rendendola un’americanata che neanche nelle peggiori soap opera. Il tutto condito dal raccapricciante spettacolo del sottoscritto alle prese con canti natalizi interpretati con voce profonda da crooner. Dopo non molto sono stato messo al silenzio e sostituito dal CD di “Christmas with Frank Sinatra & Bing Crosby”, pensa un po’.

Questa è la scala, conciata così fa molto middle-class:

L’albero indoor:

L’albero outdoor:

E, chicca kitsch 2007, il Babbone Natale gonfiabile. Nella foto non si vede bene, ma è pure illuminato dentro:

11 dicembre 2007

L’eterno splendore della mente immacolata

Dicono che per un attore sia più difficile fare ridere che far piangere. Penso che per certi versi sia vero, soprattutto in teatro, a meno ovviamente di comicità involontaria, ma quella non fa ridere, fa pena.
Ancora più difficile penso che sia, per un attore che è riuscito a fare ridere, riuscire a smetterla e ad essere preso sul serio in altri ruoli. Ne sanno qualcosa i nostri Albanese, Faletti, Villaggio e compagnia. E se venisse a farsi un giro in Italia, pure Jim Carrey si renderebbe conto di quanto è complicato abbandonare certi cliché, soprattutto quando hanno fatto fruttare soldi a palate a migliaia di persone, da lui stesso in primis, fino ai parcheggiatori intorno ai cinema in cui si proiettavano i film della serie Ace Ventura.
Succede infatti che un suo film di qualche tempo fa il cui titolo originale è più o meno tradotto nel titolo di questo post, sia stato reso in italiano con la frase “Se mi lasci ti cancello” che evocando commediole da cassetta tipo Se scappi ti sposo, unito alla presenza dell’attore famoso per le sue smorfie e atteggiamenti da Scemo e più scemo, venga così spacciato per commedia romantica*. The eternal sunshine of the spotless mind è invece un film magari sentimentale, ma tutt’altro che allegro, anzi, pur non raggiungendo il vero dramma, ha uno svolgimento triste e malinconico ed è interpretato da tutti i protagonisti in maniera del tutto convincente e toccante.
Il tema centrale della storia è la possibilità, attuata da una società con quello scopo nella ragione sociale, la Lacuna, di cancellare dalla propria memoria il ricordo di una persona. Da questa premessa parrebbe trattarsi di un film di fantascienza, ma in effetti questo è l’unico esercizio di sospensione dell’incredulità che viene richiesto allo spettatore. Tutto il resto è assolutamente realistico e plausibile, e mostra una realtà comune a chiunque abbia vissuto l’esperienza di una storia d’amore che nasce sfolgorante per poi attenuarsi e spegnersi lentamente lasciando troppe cicatrici e amarezze.
La narrazione oscilla tra la realtà e ciò che succede nella mente di Joel col progressivo disgregarsi dei ricordi legati a Clementine e soprattutto queste parti immergono lo spettatore in un mondo bizzarro e incoerente reso benissimo da una sceneggiatura impeccabile. “Ecco cosa deve fare un film” mi sono trovato a pensare mentre assistevo a quelle scene “regalare al pubblico una realtà speciale”. A mente fredda non confermerei in toto questa affermazione, ma in quel momento l’ho pensato con entusiasmo.
Ah già, non mancano poi tutti gli ingredienti che fanno di un film un gran film, ho già detto dell’ottima interpretazione degli attori, la fotografia, la sceneggiatura non lineare e perfetta, la colonna sonora…
Il film è del 2004, vecchiotto come tutti i film che vedo ultimamente, ma da poco è uscito il dvd a pochi euro, in edizione speciale. Acquisto consigliato (per chi compra le cose, ovviamente, agli altri consiglio comunque di metterlo in coda su e-mule).

Infine, per rendere ulteriore giustizia al titolo originale, riporto il brano della poesia di Alexander Pope (citata nel film) da cui è tratto:

How happy is the blameless vestal's lot!
The world forgetting, by the world forgot.
Eternal sunshine of the spotless mind!
Each pray'r accepted, and each wish resign'd.

[*] Non siamo nuovi a queste trovate: rimane in vetta alla mia classifica (ma quello in questione si avvicina parecchio) un film di Truffaut del 1970, Domicile conjugal che era stato tradotto in “Non drammatizziamo… è solo questione di corna” per essere contrabbandato come pecoreccia commedia sexy.

10 dicembre 2007

Marco Parente – Neve Ridens

In realtà i dischi sono 2, e si chiamano rispettivamente Neve Ridens e Neve Ridens. La differenza sta solo nella grafia, il primo, quello del 2005 ha la seconda parola barrata, il secondo, del 2006, la prima. Le ragioni artistiche di questa scelta mi sono ignote, ma dal punto di vista pratico posso immaginare che possano causare qualche disguido:
“Voglio Neve Ridens di Marco Parente, per favore” dico al commesso.
“Ecco”, mi fa, e, invece di porgermi quello che voglio, mi da l’altro.
“No, scusi, non questo, io volevo Neve Ridens”
“Eh, Neve Ridens c’è scritto, guardi”
“E no! Questo ha la parola Ridens cancellata, io voglio quello con i graffi sulla parola Neve”
E il commesso, che magari non sa di questa trovata di Marco Parente, mi guarda come se fossi scemo.
Analogamente potrei creare una situazione di imbarazzo con un commesso competente e un cliente poco informato, ma più o meno l’effetto sarebbe lo stesso. E sono sicuro che, se non proprio l’autore magari il produttore, a queste situazioni ci hanno pensato. E si sono pure divertiti a mimare una scena: “Lei pensa di prendermi per il culo?” “Ma va, imbecille, informati!” e giù schiaffoni.
Ma al di là di questo, mi preme davvero tanto parlare di questi due dischi.

Marco Parente calca le scene già da molto tempo, inizialmente con il giro dei CSI, suonando la batteria in Ko de Mondo e Linea Gotica (si parla di metà anni ’90), poi inizia a registrare a nome suo, non smettendo comunque mai di collaborare con altri artisti più o meno famosi come Cristina Donà o gli Afterhours, ed è un questa veste, nel comparire spesso nelle note di copertina dei loro dischi che mi ha reso il suo nome familiare, ma niente più, non sapevo neanche che faccia potesse avere.
Poi, qualche tempo fa, non so perché, non so come, mi sono incominciato a chiedere se davvero non si riuscisse a trovare in Italia un cantautore davvero valido che non fosse uno dei grandi nomi del passato. Ammetto la mia ignoranza, ma a guardarmi intorno vedevo un paesaggio davvero desolante, popolato da personaggi troppo attenti alla posizione in classifica o a consolidare remoti successi che a inventare nuova musica. In un negozio di dischi, di quelli che mettono a disposizione delle cuffie per ascoltare i cd in vendita, ho dato un ascolto alle tracce del secondo album.
Folgorazione! Finalmente qualcosa di interessante.
L’ho comprato e inserito nel lettore in macchina. C’è stato una settimana buona, oggetto di ripetuti e ammirati ascolti.
Documentandomi ho scoperto che questo cd è la seconda parte di un lavoro in due atti, Neve Ridens con le già citate differenze grafiche. Ho acquistato quindi pure il primo e gli ho riservato lo stesso trattamento di ascolto iterato.
Sono due album abbastanza omogenei, tanto da fare sorgere spontanea la domanda su perché non si sia pensato ad un album doppio; le risposte possono essere anche meramente commerciali (un album doppio di un quasi Mr. Nessuno chi se lo compra?), ma in effetti i due cd hanno un approccio sufficientemente diverso da giustificarne almeno la ripartizione. Il primo infatti è più melodico, mentre il secondo si colloca degnamente in quell’etichetta di songwriting adottata da chi con cantautorato intende i lavori dei mostri sacri del passato.
In effetti non siamo più in ambito di canzoni chitarra-voce strutturate su schemi strofa-ritornello ad accompagnare messaggi in forma di testo. Siamo nell’ambito dell’evoluzione più moderna di quell’approccio: arrangiamenti sofisticati, strumentazione inusuale, testi al limite dell’intelligibile, strutture complesse e stratificate. C’è pure passione, quel sangue&sudore che è ingrediente fondamentale per chi cerca di trasmettere se stesso attraverso i suoni e la musica, ci sono sussurri, ci sono rumori, ci sono dissonanze… Ma c’è pure melodia (non banale), ritmi accattivanti e testi da canticchiare. Però non è tutto lì, ed è questa la differenza con quel desolante panorama di cui dicevo prima. L’unico appunto che sento di fargli è che scivola un po’ troppo verso i Radiohead di qualche tempo fa. Peccato veniale però, primo perché i Radiohead di qualche tempo fa producevano cose meravigliose e secondo perché queste scivolate sono sinceramente poche (3, 4 sui due dischi). Prendiamole come citazioni, va.

5 dicembre 2007

Come io vedo il mondo

Ho appena finito di leggere il libro qui a fianco. Si tratta de "L'illusione di Dio", l'ultimo libro pubblicato in Italia da Richard Dawkins.
Dawkins è un biologo inglese che è considerato uno dei maggiori scienziati darwinisti del mondo (e forse, dopo la morte di Stephen Jay Gould, il maggiore) e che ha sempre fatto un'encomiabile opera di divulgazione scrivendo libri interessantissimi che forniscono una descrizione molto approfondita, sebbene comprensibile anche ai non addetti ai lavori, della teoria dell'evoluzione.
Questa sua posizione l'ha messo quindi in aperto contrasto con quelle frange religiose che, bibbia alla mano, sostengono la teoria del creazionismo, cioè l'ipotesi secondo cui la terra è stata creata in sette giorni, popolata in un giorno di tutte le specie che possiamo vedere oggi (e che quindi non hanno subito evoluzione alcuna, ma sono state concepite proprio così), ha qualche migliaio di anni di vita e così via.
L'essere coinvolto (direi suo malgrado) in questo tipo di dibattito, ha fatto di Dawkins una specie di paladino della laicità, o meglio, proprio dell'ateismo.
In questo libro lo scienziato abbandona quindi (temporaneamente credo) il suo ruolo di scienziato per affrontare il tema dell'esistenza di Dio, della religione, della fede, dell'etica e di tutte le tematiche correlate all'esperienza religiosa in senso lato.
La sua posizione, è quasi inutile dirlo, è quella di negazione totale dell'esistenza del trascendente in generale e di un Dio personale in particolare. Nello snodarsi dell'esposizione, Dawkins sostiene il diritto della scienza a dire la propria sull'esistenza di Dio, magari non arrivando a negarla con certezza, ma almeno a giudicarla ipotesi altamente improbabile. Tanto improbabile quanto una teiera in porcellana in orbita intorno al sole tra la Terra e Marte: magari è difficile o impossibile dimostrarne l'inesistenza, ma altrettanto difficile sostenerne la veridicità (l'idea della teiera orbitante è di Bertrand Russell, più volte citato nel libro).
Gli argomenti toccati sono poi molti altri e tutti di portata sicuramente notevole, quali l'educazione dei bambini, le origini socio-biologiche della religione, l'etica, la morale descritta nella Bibbia, la deriva del fondamentalismo e via dicendo.
E' interessante poi, soprattutto per noi italiani, leggere dell'opinione che ha, da ateo più vicino al protestantesimo che alla Chiesa di Roma, di certi rituali o consuetudini cattoliche, quali, su tutte, i processi di santificazione, i miracoli e il politeismo (trinità, Madonna, santi, angeli, cherubini...) che di fatto impregnano la cultura religiosa dalle nostre parti.
E' un libro intelligente, inoppugnabile (per me) nelle premesse e (oggettivamente) nelle conclusioni, che non si preoccupa di nascondersi dietro l'immotivato rispetto che sarebbe da attribuire alle fedi religiose e alla sensibilità dei credenti, ma espone in maniera pacata e coerente la posizione di chi credente non è, ed è fiero di esserlo.

Ogni tanto capita che io venga a trovarmi coinvolto in discussioni che riguardano la mia risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l'universo e tutto quanto. Beh, d'ora in poi potrò dire, anche a chi non mi è abbastanza vicino da affrontare certi discorsi con me dopo cena, che con ottima approssimazione, la mia visione delle cose coincide con quanto potete trovare in queste pagine.

3 dicembre 2007

El Guapo - Super/System

È uno dei leit-motiv di chi ascolta musica indie: ciò che ha successo è da disprezzare. È sicuramente un punto di vista molto snob, piuttosto antipatico e pure un po’ supponente, però bisogna riconoscere che ha un suo fondamento. In poche parole si basa sul fatto che il gusto medio, quello che costituisce i grandi numeri e quindi il successo, è basato su un grado di competenza per forza di cose molto superficiale. Non mi riferisco solo alla musica ovviamente, ma pure alla letteratura, al cinema, alla pittura e pure, uscendo dall’ambito più rigirosamente artistico, pure allo sport, alle auto, alla moda, alla cucina [sto palesemente cercando solidarietà: provate a pensare qual è il campo in cui vi sentite più ferrati della media e valutate quanto sono diverse le vostre preferenze rispetto a quelle della maggioranza delle persone]. Sembra esserci una legge matematica che soggiace a questa constatazione, ma forse è solo sociologia: non abbiamo la possibilità materiale di approfondire tutto quello che ci interessa e quindi siamo superficiali nella maggior parte dei casi (se va bene. Volendo possiamo anche essere superficiali su tutto). Ed essere superficiali significa pure essere più esposti agli stimoli promozionali e commerciali che hanno una ragione di essere nella semplicissima constatazione che la fruizione dei nostri interessi ha pure un risvolto economico, cioè siamo disposti a pagare per soddisfare le nostre curiosità e tanto meno siamo smaliziati, tanto più siamo inclini ad accettare consigli e suggerimenti da sirene pubblicitarie e propagandistiche.
Un corollario all’equazione di successo = di bassa qualità è l’affermazione se possibile ancora più snob che, viceversa, ciò che è di nicchia e poco apprezzato dal grande pubblico è automaticamente apprezzabile. Questa è un’affermazione che, sebbene possa essere in un certo senso seducente, all’atto pratico trova talmente tante eccezioni da rivelarsi del tutto infondata. Basti pensare a tutta l’immondizia che infesta qualsiasi campo dello scibile, che è talmente di basso livello da non potere neanche essere gradita dai fruitori più distratti. E pure, dato che sono convinto che il successo di pubblico sia determinato in buona misura dalla spinta promozionale, è sufficiente che questa spinta non ci sia perché la visibilità di un prodotto sia pressoché nulla, a prescindere dal suo valore effettivo.
Eppure rimango convinto che sia proprio nel troppo vasto mondo del misconosciuto che si trovino le gemme più preziose ed è per questo motivo che negli ambiti in cui sono più appassionato, la musica per esempio, cerco con brama qualsiasi indicazione o dritta che mi possa svelare qualcuno di questi tesori.
Una delle mie bussole preferite in questo ambito è un libro che si intitola “Rock e altre contaminazioni”, scritto dai giornalisti di Blow Up (mia bussola mensile) che ha la pretesa di elencare e descrivere i 600 album a dir loro fondamentali per comprendere l’evoluzione e la storia del rock (lo potete trovare qui). Va da sé che, di queste sei centinaia di dischi, si possano contare sulle dita quelli che hanno riscosso un vero ed universale successo commerciale, per cui, anche solo per scoprire nuovi nomi, trovo che sia un libro interessantissimo. Ma magari ci tornerò su più in dettaglio un’altra volta.

Oggi mi preme condividere una scoperta che ho fatto grazie ad esso. Si tratta degli El Guapo, un trio proveniente dalla zona di Washington D.C. che ha fatto questo disco talmente poco diffuso da essere persino difficile da recuperare dai percorsi p2p. Lo sto ascoltando da qualche giorno e mi sento travolto dall’entusiasmo per la scoperta di una tale meraviglia. Non mi è facile descrivere di cosa si tratta, perché è una cosa che io non avevo mai sentito. Certe eco ci sono, danno dei riferimenti, e si orientano nell’ambito di una rielaborazione della new-wave, ma sono talmente rimaneggiati alla luce non solo di quello che è venuto dopo (techno, noise, post-rock…), ma pure da quello che c’era prima e che la new-wave, proprio nel suo essere “new”, aveva ripudiato: prog, kraut, pure jazz e jazz-rock e qualche strizzata d’occhio al buon vecchio Zappa, il tutto talmente ristrutturato, dicevo, da perdere qualsiasi connotazione di nostalgico revival.
Ne è venuto fuori un lavoro composto da ben diciotto tracce, alcune a dire il vero brevissime, ma che devono la loro concisione non all’essere dei riempitivi quanto al fatto di essere sufficienti a se stesse, dall’essere un discorso che non richiede ulteriori sviluppi. Le tracce invece di lunghezza più usuale hanno solo questa in comune a canzoni ordinaria fattura: fin dalle prime battute rivelano strutture sghembe, a volte complesse e a volte scarne ma mai, in nessun modo, banali e che evolvono puntualmente verso derive affascinanti.
Ritornando al discorso iniziale, la scarsissima visibilità (ho faticato davvero parecchio a procurarmelo) di un lavoro come questo, è molto probabilmente e semplicemente dovuta ad una esiguità di mezzi finanziari di chi l’ha prodotto, scarsa possibilità di promozione, pure in ambiti specialistici, assenza di video, bassa propensione al divismo degli autori, ma è pure imputabile, e qui salta fuori l’orgoglio snob, ad una sua elevata sofisticazione, troppo elevata per essere apprezzabile senza un’adeguata conoscenza delle possibilità dell’espressione musicale.
Chiaro che io, proprio per orgoglio, preferisco propendere per la seconda motivazione, ma insisto col dire che non si tratta solo di autocompiacimento: sono davvero convinto di essere alle prese con un capolavoro e ho bisogno di giustificazioni di vario tipo per comprendere perché non sia conosciuto ed apprezzato per quel che merita.