9 giugno 2008

Ian Mc Ewan – Sabato

Ian Mc Ewan è uno scrittore capace di scrivere in modo pressoché perfetto. Non una sbavatura, non un periodo zoppicante, non una frase che necessiti rilettura, sempre lucido e limpido come una lama d'acciaio. È uno di quelli che pensi che saprebbe scrivere alla grande anche descrivendo la situazione più banale possibile.
In questo caso, per esempio, descrive con una precisione incredibile una giornata (un Sabato, appunto) di un certo Henry Perowne, dal momento del suo risveglio, prima riga della prima pagina, al suo addormentarsi quasi ventiquattr'ore dopo, ultima riga dell'ultima pagina. Nel mezzo la sua vita scorre in modo quasi ordinario, lineare, a parte le inevitabili e numerose digressioni che riportano gli antefatti e permettono di inquadrare nel modo più preciso possibile l'esistenza del protagonista e dei suoi familiari.
A dire il vero la giornata di H. Perowne a causa di un paio di notevoli incidenti è tutt'altro che ordinaria, anzi è una di quelle che una persona si ricorda per sempre nella vita. Il McEwan però non sbraca mai, non è proprio nelle sue corde, e questi accadimenti sono certamente straordinari, ma sempre entro i limiti della ragionevole plausibilità, un po' come il mio incidente in moto dell'86, memorabile (eccome!) per me, ma niente su cui sia il caso di scrivere un libro.
E in effetti confesso che il sospetto che questa volta McEwan avesse fatto un esercizio di stile (tipo "Il candidato dimostri che è possibile scrivere un libro intero raccontando l'ordinarietà della vita reale") e che questo esercizio fosse un po' fine a se stesso, mi ha assalito diverse volte durante la lettura e altrettante volte ho pensato che come andasse a finire quella giornata, potessi anche evitare di saperlo, abbandonando libro e tribolazioni per passare ad argomenti più intriganti.
Invece, un po' per testardaggine e un po' per dovere nei confronti di un autore che considero tra i migliori dei nostri tempi, sono arrivato fino alla fine e devo ammettere di avere poi chiuso il libro convinto di avere ben impiegato tempo e fatica. McEwan alla fin fine riesce a dimostrare che per descrivere i più reconditi recessi dell'animo umano, non è necessario inserire i protagonisti in situazioni estreme e irreali, ma è sufficiente osservarli con grandissima attenzione mentre si arrabattano tra le già non poche difficoltà della vita ordinaria.

Infine, il lato negativo, che però, non essendo farina del mio sacco, trovo doveroso innanzitutto citarne la fonte (Nick Hornby in Una vita da lettore), e poi devo ammettere che se non lo avessi letto da lui, probabilmente non ci avrei neanche fatto caso: l'ambientazione è troppo smaccatamente borghese, stimato neurochirurgo, valente avvocatessa, suocero poeta di successo, figlia poetessa (già pubblicata) pure lei, figlio apprezzato chitarrista... Non che ci sia niente di male in questo, però, nota Hornby, è una sorta di scorciatoia, quella di raccontare i pensieri di persone colte e intelligenti la cui fine eloquenza è troppo sospettosamente di pari livello di quella dell'autore. In altre parole, troppo facile per uno scrittore descrivere i pensieri di persone simili a lui. Provi un po' a descrivere la psicologia dei tifosi di calcio!

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