22 dicembre 2010

Ciao Enzo

Sicuramente è il ricordo calcistico più bello di tutta la mia vita. Quel mondiale di quasi trent'anni fa è rimasto scolpito nella mia memoria in modo indelebile, molto più che qualsiasi altra partita o evento calcistico precedente o successivo.
Io avevo 12 anni allora. A quell'età il calcio era, come penso sia ancora, quasi un dovere, faceva parte del modo di vivere e anche di pensare di quasi qualsiasi coetaneo che io conoscessi. Figurine, partite improvvisate ovunque, inclusione in squadre serie, gare di rigori, giochiamo al torello, ultimo in porta, portiere volante, palloni di plastica, palloni di cuoio, scarpe devastate dal gioco e mamme furiose…
Per noi era IL GIOCO. Se due o tre ragazzini si trovavano insieme, si giocava a calcio. Fosse anche in casa, nel corridoio, o nel cortile. A scuola nell'intervallo erano d'obbligo partite tumultuose, 15 contro 15 in un cortile, si tornava in classe sudati come bestie.
Dove ho fatto le medie poi, proprio in quegli anni, c'era un grande cortile con 5 o 6 porte disegnate su un muro e le colonne del porticato sul lato opposto del cortile. Si giocava lì, ogni classe aveva le sue due porte e giocava la sua partita contemporaneamente alle altre classi che giocavano la loro tra le loro porte. Vista dall'alto doveva essere impressionante. Tremende pallonate in faccia e scontri spacca-denti tra giocatori di partite diverse erano all'ordine del giorno. Anzi, ne capitava una ogni minuto.
Perfino da soli si giocava. Perfino in classe. Ricordo che disegnavamo azioni di gioco con omini stilizzati e la traiettoria del pallone disegnata a trattini. Alla faccia di chi pensa che siano i tempi moderni ad avere creato questa overdose di calcio.
E poi quell'anno c'erano i mondiali.
Se ne parlava in tv e sui giornali, si faceva l'album, si parlava di quelle nazionali fortissime che arrivavano dal sudamerica, Zico e Maradona erano già leggende, noi impersonavamo i loro nomi quando giocavamo, io sono Socrates, io Rummenigge, io Falcão. Gli italiani prima del campionato non erano molto ambiti. Giusto Bruno Conti, che giocava come un brasiliano.

Poi venne veramente il mondiale, quel Mondiale. Anzi, il Mundial.
La storia è stranota: l'avvio difficile dei tre pareggi contro le squadrette Perù, Polonia e Camerun, la delusione, il silenzio stampa, il terribile girone di ferro contro Argentina e Brasile, le più forti di tutte (ricordo nitidamente un articolo di Sivori che diceva "Italia rassegnati, sono di un altro pianeta"), la vittoria inaspettata con l'Argentina, Gentile contro Maradona, la vittoria ancora meno pronosticabile contro il fantastico Brasile, Paolorossi tuttoattaccato, la tripletta, i gol-rapina, l'euforia (Sivori tiè!), la passeggiata con la Polonia in semifinale, ancora Paolorossi in doppietta, la finale, le città addobbate di tricolori come non le ho mai più viste, macchine dipinte di vernice verdebiancorossa. Mi chiedevo che ne avrebbero fatto di quella macchina se l'Italia quella sera non avesse vinto. Ora mi chiederei pure che se ne siano fatti di una macchina conciata così dopo i festeggiamenti della sera, ma ora sono più cinico. Allora mi sembrava solo un azzardo.

Io ero ad Alassio, in colonia coi Salesiani. Metti insieme 100 ragazzini di 10-13 anni tutti maschi e fagli respirare l'aria che si respirava in quel giorno. Era un'esaltazione totale, assoluta.
Non si parlava d'altro, non c'erano altri argomenti che il Mundial.
Vedemmo la finale nella sala comune. C'era la certezza di vincere, poi il rigore sbagliato da Cabrini a fine primo tempo sembrò preannunciare un terribile ritorno alla realtà. Poi Paolorossi, l'urlo di Tardelli, le braccia alzate di Altobelli, le mani sventolate da Pertini.
La vittoria.
Uscimmo fuori in cortile a urlare come forsennati, 100 ragazzini che sbraitavano peggio che invasati, abbracci, corse, urla, urla urla. Un'altra immagine: io che corro per il cortile e mi trovo faccia a faccia con uno con cui non è che corresse proprio particolare simpatia. Lui mi aspettava a braccia spalancate e bocca pure lei spalancata in un urlo di gioia. Ci siamo abbracciati urlando.

Ancora un anno dopo, ero in vacanza studio in Irlanda, c'era l'orgoglio di noi Italiani per essere i World-Champions. Se si faceva una partitella con coetanei di altre nazionalità, noi avevamo il dovere di mostrargli quanto fossero forti gli italiani a giocare a calcio e in effetti quella consapevolezza ci dava grinta, e vincevamo spesso.
Ci sentivamo davvero ammirati ed invidiati per quella coppa che la nostra Nazionale aveva vinto, eravamo convinti di incutere rispetto, qualcosa tipo "Sì, sono dei deficienti indisciplinati, ma sono Campioni del Mondo". Una roba così ci sembrava di leggere negli sguardi degli stranieri, che molto più probabilmente si fermavano alla prima metà della frase.

E ora uno degli artefici di quella storia esaltante se ne è andato.
Bearzot.

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