Io sono uno di quelli a cui ogni tanto succede di saltare sul carro del morto.
Brutta affermazione, vero? Ma mi spiego: con D.F.Wallace mi è capitato di scoprirne l'esistenza quando si è sparsa la notizia della sua morte, leggendone il rimpianto sconsolato di chi lo aveva conosciuto quand'era ancora vivo.
Lo stesso mi era capitato con Kurt Vonnegut, Jaco Pastorius, John Peel, Douglas Adams e chissà quanti altri che ora non mi vengono in mente. E mentre fino ad allora vivevo felice e contento nella completa ignoranza della loro esistenza, poi vorrei entrare nella schiera di quelli che dicono "peccato che se ne è andato, era un grande".
Tutte queste scoperte postume probabilmente denunciano delle mie grosse lacune, lo so, ma tant'è...
Allora, David è morto il 12 settembre di quest'anno, e tante e tali sono state le dichiarazioni sgomente e afflitte dei suoi lettori, di alcuni dei quali seguo i blog, che non ho potuto fare a meno di incuriosirmi e andare a cercare le sue opere in libreria.
Viene fuori che Wallace ha scritto quello che viene piuttosto generalmente definito come un capolavoro che si chiama Infinite Jest, che però ha un aspetto un po' minaccioso: 1281 pagine fitte fitte, con una trama un po' sconnessa e commenti infuriati di troppi lettori sconfitti dal suo peso (provate a leggere i commenti dei lettori nel link di IBS che ho riportato sopra). Insomma, io ero appena uscito esausto da Underworld e non avevo voglia di affrontare altri mattoni, così mi sono orientato verso le sue opere minori.
Ho letto prima La Ragazza Dai Capelli Strani, una notevolissima raccolta di racconti di cui effettivamente dovrei scrivere qualcosa qui, poi mi sono letto questo libro ed è stata un'esperienza straordinaria.
Si tratta del resoconto di una crociera extralusso di 7 giorni nei Caraibi, a cui l'autore ha partecipato, inviato, proprio per scriverne un'articolo, dalla rivista Harper's.
Wallace è (era, mannaggia!) una specie di nerd forse un po' sfigato, nonostante la sua genialità letteraria, per cui in un ambiente del genere si trova molto peggio del proverbiale pesce fuori dall'acqua. Si crea quindi un gustosissimo contrasto tra la sua genialità e la sua goffaggine (e più che altro la prima che descrive la seconda), e la sua analisi lucida, ma neanche lontanamente fredda, biasima la sua inettitudine e non si vergogna di raccontarla.
Descrive con minuzia gli agi e il lusso sfrenato a cui viene sottoposto per una settimana, la perfetta efficienza del personale e dell'organizzazione della crociera, e lo analizza fino a scovarne l'aspetto grottesco. A fatica però, perchè quella superficie è talmente immacolata ed abbagliante da rendere difficile scorgere il vuoto che cela, perché è proprio quello ciò a cui tutti sono addestrati (e con che metodi!) su quella nave: convincere il cliente che veramente la sua soddisfazione è la loro gioia più ambita.
La traduzione del titolo è abbastanza fedele all'originale, se non fosse che quello dice "A supposedly fun thing...", cioè una cosa che si presuppone divertente, e quest'avverbio descrive in pieno l'angolazione da cui è scritto il libro (che in principio doveva essere appunto solo un articolo di giornale, poi è cresciuto a dismisura fino a diventare un libro a sé): il resoconto di un'esperienza che per quanto strabiliante e pressoché perfetta nel suo viziare i clienti, non riesce mai a sopire quel bambino incontentabile e capriccioso che è dentro di noi, e anzi, come succede con i bambini veri, il vizio eccessivo non fa altro che alzare la posta delle esigenze a livelli assurdi, dove ti rendi conto che nulla può soddisfarti a pieno, soprattutto se, quando hai prenotato la crociera e hai pagato il biglietto, ti hanno promesso che ogni tua esigenza sarebbe stata indubitabilmente soddisfatta.
Una lezione di vita, alla fine.
A questo punto Infinite Jest mi tenta, ma non ora. Magari la prossima estate...
5 novembre 2008
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