(All’inizio di questo post c’è solo un’interminabile serie di chiacchiere mie. Chi è interessato a sapere com’è il disco, salti pure all’ultimo paragrafo)
Io ho tutta una serie di musicisti con cui una volta mi dicevo incazzato. L’archetipo di questo personaggio era Pino Daniele, un musicista una volta dotato di talento, che agli inizi della carriera aveva fatto anche delle cose interessanti, dimostrando capacità non proprio comuni e che poi, raggiunto il successo, non solo si è adagiato nel cercare di ripetere la stessa formula che lì lo aveva portato, ma addirittura a scendere di livello, alla ricerca di un consenso pop ancora più vasto, con buona pace della qualità della musica prodotta, e con la speranza (a volte realizzata, a volte manco quello) di rendere il proprio singolo accattivante per radio e supermercati.
Naturalmente Pino Daniele era solo uno dei tanti, dato che questo atteggiamento è diffusissimo. Altri che accomunavo nella stessa cricca erano Sting, Santana, gli U2, i Pink Floyd, i Depeche Mode, …
Secondo il mio ragionamento, pure una persona che ama davvero la musica (e per arrivare a certi livelli occorre avere una passione smodata, su questo non ci son dubbi), ha ovviamente delle esigenze pratiche (leggi: bisogno di soldi) e una vanità che lo può comprensibilmente spingere verso il successo commerciale. Però, una volta raggiunto questo, una volta messo sotto il materasso un bel mucchietto di soldini, non dovrebbe essere naturale che torni ad occuparsi a quella sua passione originale, fregandosene degli aspetti commerciali, delle melodie orecchiabili, del posto nella top-ten, di come vengono le foto nei poster pubblicitari?
E invece no, maledizione! Canzoncine da quattro soldi propinate a ogni inizio estate nella speranza che diventi una hit, finendo poi col consegnare inevitabilmente al pubblico l’immagine di un vecchio rimbambito che cerca a tutti i costi di rimanere ggiovane e di piacere ai ggiovani, vestito come un ggiovane in tutti i programmi per ggiovani.
“Ma vaffanculo,” gli dicevo nella mia pacata presa di posizione, “sei bollito e ridicolo. Vai a farti un brodino, che a ballare in quel modo ti si stacca la dentiera!”.
La mia visione forse un po’ fuori dalla realtà era che questi musicisti, raggiunta una solidità economica che farebbe invidia a tanti, superata l’età in cui ci si può permettere di cercare di piacere alle ragazzine dinoccolandosi su un palco e sorridendo ammiccanti ad una telecamera, dovrebbero ritirarsi in un eremo, o magari uno studio di registrazione, e cercare di fare musica con la mentalità e l’approccio di chi vorrebbe almeno tentare di produrre un’Opera d’Arte. Poi non è detto che ci si riesca, chiaro, e molto probabilmente, anche e forse soprattutto se ci si riesce, quel lavoro non piacerà a nessun altro che a lui, o magari a qualche dozzina di persone. Ma questa è l’Arte. E sono più che convinto che qualsiasi musicista degno di questo nome, posto di fronte all’alternativa poco successo ma opera d’arte o molto successo ma opera di merda, sceglierebbe la prima opzione.
E questo per me è un criterio imprescindibile per valutare quanto un artista si meriti la mia stima, per quel che vale: se sceglie la prima opzione ha la mia stima, altrimenti il mio disprezzo. Per quel che vale, ripeto.
Poi col tempo questa mia rabbia si è un po’ placata, sia perché incomincio ad essere convinto che certa gente sia proprio bollita e che un Opera d’Arte non sarebbe più in grado di realizzarla, con tutta la buona volontà, sia perché ho iniziato a pensare che la vanità sia una droga davvero potente e che non è detto che io, posto nelle stesse condizioni, mi comporterei davvero da puro di cuore.
Ma questo mio essere più accondiscendente in fondo non fa altro che aumentare la stima che ho nei confronti di chi invece la strada più difficile decide di seguirla, e il meraviglioso David Sylvian è sicuramente uno di questi.
Chi avesse la sfortuna di non conoscerlo, sappia che David Sylvian agli inizi degli anni ’80 era leader dei Japan, un gruppo synthpop alternativo di un certo successo e piuttosto gradito al sottoscritto. Poi, sciolto il gruppo, iniziò una carriera solistica che continua tutt’ora e che ha dato alla luce dischi come Brilliant Trees e The Secret Of The Beehive che l’hanno rilanciato alla fama mondiale con quei grandi lavori che mettono d’accordo critica e pubblico.
A questo punto, come già con i Japan, stava per raggiungere un successo commerciale mica da poco. E che fa il nostro? Batte il proverbiale ferro finché è caldo? Naaaa. Inizia a realizzare una serie di dischi in collaborazione con personaggi di altissima caratura, ma di scarsissimo fascino commerciale (Holger Czukay, Jaki Liebezeit, Michael Karoli, Robert Fripp…) con il conseguente ovvio risultato di produrre lavori ottimi ma graditi a qualche manciata di persone nel mondo, o poco più.
Dopo questa fase collaborativa, ritorna poi ai lavori solisti (non da solo, ovviamente, ma come autore a tutto tondo), tra i quali l’ultimo è questo Manafon la cui copertina spicca lassù, all’inizio di questo interminabile post.
Manafon è la voce di David Sylvian che canta sopra delle strutture musicali sottili come una ragnatela. C’è una sua intervista in cui l’intervistatore inizia il pezzo ponendo(si) una domanda: “Quanto riesci a togliere e comunque continuare ad avere una canzone?” e questa domanda descrive esattamente l’essenza di tutto il disco.
In ogni brano l’accompagnamento, la parte musicale, è costituita da frammenti, da piccole schegge di suoni che a malapena si legano l’un l’altro. Parlo di note di chitarra, rumori, sfrigolii, violoncello, sax, pianoforte, altri glitch e fruscii. Su questi impalpabili tappeti sonori poggia la voce che canta senza mai strafare, quasi trattenuta, ma sempre con quel calore unico al mondo che la contraddistingue.
Un disco piuttosto ostico dunque, poco accessibile. Ma, almeno per me, tanto attraente da averlo ascoltato ininterrottamente 4 volte di fila ed averlo trovato sempre più bello. È difficile da spiegare, ma c’è qualcosa di seducente nelle atmosfere sospese che si creano, tipo quei fili di nebbia sospesi in mezzo ai campi in inverno. Freddo, un po’ cupo e triste anche, ma seducente e bello da vedere, da assaporare.
Ne siano avvisati gli estimatori di Orpheus, di Forbidden Colours o di River Man: David Sylvian è da tutt’altra parte, non si è fermato lì. Ha dato il proprio contributo, un magnifico contributo e poi ha cercato altre mete.
E questo, per tutto quello che dicevo all’inizio, non fa che aumentare la mia ammirazione smodata per lui, anche solo per il coraggio che dimostra in questa sua costante ricerca.
Per non parlare del fatto che secondo me questo disco è un vero capolavoro. Un’Opera d’Arte.
1 commenti:
Sì. pienamente d'accordo, seguo Sylvian da sempre e la coerenza nella sua evoluzione artistica non ha paragoni. Grande
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