Esiste un termine piuttosto usato (ed abusato) nei meandri un po’ snob della musica ed è “seminale”.
In pratica, corrisponde al pistolotto fatto da Meryl Streep-Miranda Priestly in Il Diavolo Veste Prada. Per chi non lo avesse visto: la ragazzina neoassunta da una influentissima rivista di moda si fa in cuor suo beffe del mondo della moda, dei suoi meccanismi e della sua superficialità. La direttrice della rivista la annienta facendole notare che il colore (azzurro) del maglione sdrucito che la ragazza indossa in realtà è una precisa tonalità, il “ceruleo”, che un certo stilista aveva proposto anni prima ad una sfilata. Poi altri stilisti hanno iniziato ad usare quel colore per alcuni capi delle loro collezioni. Alla fine, tra scopiazzature e imitazioni, quella tonalità è arrivata fino ai grandi magazzini, dove la ragazzetta l’ha comprato pensando di fare una scelta letteralmente “casual”.
In ambito musicale l’essere “seminale” ha lo stesso significato: esistono musicisti che lavorano e creano le proprie opere al di fuori dei circuiti più commerciali e producono lavori che ben difficilmente potrebbero avere grande diffusione e successo. Però questi musicisti sono comunque influenti, perché presenti nelle manifestazioni che contano, seguiti da un pubblico che ama ricercare i propri ascolti, ma più che altro apprezzati dagli addetti ai lavori che si rivolgono a loro quando cercano ispirazione. E così le idee di questi personaggi pian piano si diffondono anche tra chi frequenta solo musica più commerciale o addirittura non ne ascolta affatto (per esempio tramite gli spot pubblicitari o le colonne sonore dei film). Ed è così che i suoni e gli arrangiamenti del singolo n°1 di oggi dei Black Eyed Peas (sono andato a cercarmelo sul sito di RadioDJ) sono così diversi e moderni rispetto a quello di Believe di Cher, n°10 anni fa.
Così vanno le cose: la musica evolve, grazie ai seminatori che spesso se ne stanno nascosti, ma senza il cui apporto saremmo ancora al rock&roll di Chuck Berry. O anche a prima.
Tutto questo mi è venuto in mente ascoltando Incunabula, album dato alle stampe sedici anni fa dagli Autechre, oscuro (ai più) duo dei pressi di Manchester, per la Warp Records, una delle più influenti case discografiche in ambito elettronico del mondo.
Ha sedici anni questo disco, ma io l’ho finalmente scovato in negozio pochi giorni fa e l’ho messo a rotazione continua sul mio stereo.
Ha sedici anni, ma tutto quello che senti sembra attuale e innovativo anche oggi, anzi di più: sembra un ingrediente fondamentale della musica odierna. Et voilà la seminalità: quello che hanno fatto si è diffuso, lentamente ma inesorabilmente, è stato assimilato, cannibalizzato, ricopiato e trasfigurato, fino a diventare costituente ovvio anche di quel che passa la radio all’ora di pranzo.
Occhio: non ci trovi il ritornello di Beyoncè o l’incipit di Shakira, ma nella loro musica potresti trovare dei suoni o dei modi di strutturare l’arrangiamento che arrivano proprio da lì. Ed è proprio questo che ho trovato meraviglioso: avvertire la bellezza di quella musica assieme alla sua autorevolezza, come a dire “ecco qua i maestri di tutti quanti”.
Per provare a descriverla, ma tanto è impossibile se non per cercare di inquadrare il genere, si sappia che si tratta di musica elettronica di tipo ambient/techno, ma con inserti ritmici non distantissimi da certe sonorità hip-hop più evolute. Il tutto rigorosamente solo strumentale.
Però ciò che è la cosa più intrigante di tutte è che si tratta di un disco bellissimo e piacevolissimo da ascoltare. Perché va bene l’importanza storica, va bene l’influenza, va bene tutto, ma se poi dobbiamo sorbirci un mattone inascoltabile, allora chi ce lo fa fare?
E invece con questo lavoro il rischio non si corre, anzi, la sensazione è sempre quella di assistere ad un magnifico e coinvolgente spettacolo di suoni avvolgenti ed ipnotici, rilassanti e perfettamente congegnati.
Un disco raro che fortunatamente ha dato frutti per gli anni a venire.
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