8 gennaio 2008

Ian Mc Ewan – Chesil Beach

Domanda per gli sposati: com’è stata la vostra prima notte di nozze?
Beh, ognuno di noi avrebbe la sua da raccontare, ma credo che nel 2008 siano in pochi quelli che avrebbero da riferire di angosce e struggimenti dovuti all’atto del, come si dice, “consumare il matrimonio”.
Eppure, per quanto ci sembri strano, c’è stata un’epoca in cui questo era tutto sommato consueto. Si giungeva vergini, inesperti, incapaci anche di immaginare cosa sarebbe dovuto accadere, grazie pure al fatto che di discorsi riguardanti il sesso se ne facevano pochi, l’argomento era tabù e il fidanzamento non era altro che un frequentarsi, magari anche assiduamente, ma sempre in modo casto e al di fuori di qualsiasi intimità fisica. Si considerava già un successo il bacio, qualche carezza, al massimo una palpatina, ma di più non si poteva, assolutamente.
E così si arrivava, dopo la cerimonia di nozze, dopo il pranzo o il rinfresco con amici e parenti, a trovarsi a tu per tu con quello che in fondo era un dovere e pure piuttosto stringente. È da non dimenticare infatti che il mancato compimento del dovere coniugale era (ed è ancora), una delle pochissime cause di invalidazione del matrimonio anche per la Chiesa.
Per cui non c’era storia, niente scuse: la prima notte di nozze doveva coronarne la riuscita con un rapporto sessuale completo.
Date queste premesse, ignoranza, inesperienza e dovere, non è per nulla stupefacente che l’animo degli sposini di fronte al talamo nuziale fosse ansioso al limite del panico. E non sono un gran esperto di psicologia femminile, ma qualcosa mi dice che per la sposa fosse anche peggio che per lo sposo.

Il libro di Mc Ewan racconta proprio di una prima sera di nozze tra due giovani agli inizi degli anni ’60 (per la precisione nel 1962, l’anno in cui si sono sposati i miei genitori, guarda un po’) e di tutti i turbamenti segreti che ne conseguono. Segreti, perché ognuno dei due non osa in alcun modo parlarne con l’altro. In fondo sarebbe così semplice: lei dice a lui “Senti caro, io ho una paura fottuta di quello che stiamo per fare” e lui le risponde “Sì amore, pure io non so bene come fare, ma cerchiamo di fare attenzione e non dovrebbero esserci problemi”. Ma invece no, occorre pure recitare la parte di chi non ha altro desiderio che buttarsi sul letto a darci dentro, guai a fare scoprire all’altro che non è così, penserebbe che non lo si desidera, che non lo si ama, che non si ha piacere della sua intimità.
Tenendo fermo il presente di quella serata, il racconto utilizza una serie di digressioni nel passato per descrivere la vita dei due protagonisti, come sono cresciuti per giungere ad incontrarsi, a innamorarsi e a decidere di sposarsi, e pian piano procede con l’evoluzione di quelle poche ore fino alla loro soluzione finale, non mancando di descrivere ambienti, situazioni e stati d’animo con una finezza microscopica.

È stato il mio ultimo libro del 2007, il secondo che leggevo di Mc Ewan (l’altro è il pure bellissimo Lettera a Berlino) e l’ho trovato scritto bene, profondo, intelligente e delicato nel trattare un argomento spinoso evitando facili scivolate verso la volgarità. Non manca neppure di una perfida ironia: il sottolineare quanto quelle vicende si svolgano a ridosso della rivoluzione sessuale che si sarebbe realizzata di lì a poco e che con pochi accorgimenti (che oggi parrebbero semplicissimi) avrebbe risolto molte noie a Edward e Florence. E mi viene quindi da riflettere sul fatto che a queste pagine dovrebbe pensare chi ogni tanto snobba il cataclisma culturale verificatosi nel decennio ’65-’75: siamo talmente immersi nei suoi risultati da non renderci più conto di quanto il modo di vivere prima di esso fosse diverso da oggi anche (e soprattutto, direi) dal punto di vista psicologico e un libro come questo funge egregiamente da promemoria.

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