13 marzo 2008

Daniel Pennac - Diario di scuola

Una cosa che mi ha sempre entusiasmato, fin dai primi giorni di vita del mio primogenito, è quanto il diventare padre permetta di rivivere esperienze e scoperte ormai relegate a ricordi troppo lontani o addirittura sepolti nell’inconscio.
Ti ritrovi infatti ad osservare quei cuccioli che crescono pensando a come deve apparire il mondo per te così usuale a chi lo scopre per la prima volta. E allora pure una cosa semplice come un calcio ad una palla, con la stupefacente scoperta del suo rimbalzo e il suo tornare indietro, diventano esperienze nuove di zecca, ricche di tutti i colori e la meraviglia delle cose appena conosciute, belle in quanto tali e per quanto si relazionano col nostro io, senza nessuna muffosa patina del già visto, del già compreso, del già digerito.
E poi, pure quando i bambini crescono, ti accorgi che quella sensazione di novità continua a rimanere viva anche nelle loro esperienze più sofisticate e incominci ad avere la sensazione che non ti abbandonerà mai finché campi, regalandoti la meravigliosa e preziosissima opportunità di una seconda vita per interposta persona (e qui capisci pure come la tentazione di impossessarsi di questa seconda vita, di cercare cioè che i propri figli la vivano come tu vorresti che fosse vissuta, possa essere forte e deleteria).

Una di queste esperienze, che sto vivendo da qualche mese a questa parte, è l’ingresso nella scuola che il mio primo ha iniziato lo scorso settembre.
È a dir poco affascinante assistere a quel suo ingenuo e entusiasta approcciarsi alla vita che non è più solo gioco, ma che incomincia a diventare lavoro, impegno, concentrazione, applicazione, ordine, disciplina e tutte quelle cose lì che ci fanno allontanare sempre più dall’essere bambini e ci avvicinano al mondo degli adulti con uno slancio che, ora che lo siamo diventati, ci sembra del tutto incomprensibile.
Il libro qui sopra parla appunto di scuola e lo fa dalla parte degli insegnanti (chi lo scrive è un insegnante), ma pure dalla parte dei “somari” (chi lo scrive è anche un ex somaro, ma, a quel che dice, e non c’è motivo per dubitarne, proprio somaro somaro, da zero in pagella per intenderci) e cerca di spiegarci come si possa fare di un somaro un buon allievo.
Si tenga presente che quel somaro, oltre ad essere diventato uno studente decente e poi un professore di scuola media, è pure diventato uno scrittore famosissimo, che con la sua saga della famiglia Malaussene ha venduto milioni di copie in tutto il mondo.
Col suo stile brillante e mai serioso ci fa rivivere alcune situazioni legate alla nostra infanzia tra i banchi, regalandoci sia il punto di vista degli studenti che quello degli insegnanti, permettendoci così di comprendere a fondo le dinamiche dell’apprendimento senza trascurare questioni importantissime, come la noia tra i banchi, la difficoltà di tenere sveglia l’attenzione, la capacità di stimolare l’interesse, l’apparente inutilità di certi argomenti di studio.
Uno spazio non irrilevante è dedicato ai genitori: apprensivi, scocciati, difensivi, disperati, increduli, caparbi, ostinati, provano a mettersi in mezzo in quel rapporto tra insegnanti e studenti che troppe volte sfugge non solo dal loro controllo, ma pure dalla loro comprensione. Ed è proprio questo punto che mi stimola una riflessione che ai tempi della mia carriera scolastica non mi era mai passata per la testa: nel caso di insuccessi scolastici chi ne soffre di più sono forse proprio i genitori.
Mi ricordo ancora con un brivido di angoscia i giorni deputati alla consegna delle pagelle o ai colloqui professori-genitori. In quei momenti si valutava il mio lavoro, la mia condotta scolastica, e con le magagne che cercavo in tutti i modi di tenere nascoste ai miei genitori, quelle occasioni erano delle vere e proprie redde rationem il cui esito era sempre da attendersi con timore. Attendevo quindi angosciato il rientro a casa di mio padre e la relativa discussione su quanto riferito dagli insegnanti.
Mai e poi mai mi è passato per la testa che il primo ad essere afflitto da quelle occasioni potesse essere proprio lui. Per me anche lui era dalla parte dei giudici, io dalla parte degli imputati. Punto.
E invece, ora che sono diventato grande, inizio a capire cosa significhi per un genitore sentirsi dire da un insegnante che non è contento (quando va bene) del proprio figlio. È un misto di mortificazione, delusione e sconfitta che rende quasi trascurabile il timore del giudizio patito dallo studente.
No, anzi, invece dal punto di vista dello studente è la sua la paura più grande e insormontabile di tutte e non c’è motivo di pretendere che possa pensare a quella del genitore. Ma ora che sono passato dall’altra parte della sponda, rischio (a torto) di pensare che in fondo si stesse bene con la cartella a spalle, che le angosce di quei tempi fossero ridicole e puerili. E così questo libro, senza essere un trattato noioso e pedante, ci aiuta a riportare le cose nelle loro giuste prospettive: angosce piccole per uomini giovani e angosce grandi per i grandi, ma sempre di angosce si tratta. Per fortuna, e qui questo viene raccontato, il modo per ridurle c’è e la sua formula è semplicissima a dirsi: comprensione, comprensione, comprensione.
Il difficile è realizzarla, ovvio, ma grazie a queste pagine è possibile fare qualche passo in avanti.

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