8 aprile 2008

Into the wild

Ho visto questo film e mi è piaciuto molto.
Non credo sia il caso di dilungarsi molto oltre, tante sono le recensioni e i commenti che si possono leggere in giro. Alcuni tutt’altro che benevoli.
Per i pochi che non lo hanno visto o che non ne hanno neanche sentito parlare, dico solo che racconta la storia di un ragazzo che dopo la laurea (diploma USA) molla tutto, famiglia, agi, relazioni umane, proprietà e si mette a vagabondare per gli Stati Uniti, fino a dirigersi verso l’Alaska dove potere raggiungere il culmine del suo processo di isolamento sperdendosi nella meravigliosa ma terribile natura di quei posti.

Quello che mi va di fare qui è riportare una piccola riflessione che ho fatto mentre, sonnacchiosamente sdraiato sul divano, assistevo allo spettacolo della splendida fotografia di questo film: ho invidiato il protagonista, fortemente.
Ora, chi mi conosce personalmente, sa che la vita di Christopher McCandless (aka Alexander Supertramp), è forse l’esatto contrario di quella che conduco io: famiglia numerosa, lavoro da impiegato vicino a casa, cerchia di amicizie ristretta ma solida, viaggetti delle vacanze quasi sempre nei limiti nazionali e così via. Tanto ordinaria da fare immediatamente pensare ad una insoddisfazione, un rimpianto.
E invece no.
Qui lo dico ad analisi conclusa, ma confesso che, mentre mi addentravo in questa riflessione, un certo momento di ansia l’ho vissuto eccome. In pratica mi sono chiesto: ma come? Invidio queste vicende? E allora, che ci faccio qui?
Bè, il succo del discorso credo sia suppergiù questo: nella mia vita ho fatto in modo di creare dei legami talmente assoluti e al limite dell’ideale, che se non potessi avere questi, non ne vorrei nessuno e tutto sommato, benché meno anticonformista, è una scelta radicale pure la mia, non poi così diversa da quella di Chris. Solo che lui queste relazioni non le aveva, e quindi, piuttosto che abbandonarsi all’ipocrisia e al conformismo, ha scelto la fuga.
L’invidia poi sta naturalmente nella possibilità che ha lui di esplorare il mondo geografico (non essendo stato in grado di esplorare quello delle relazioni interpersonali), nella libertà delle sue scelte, nell’indipendenza dai vincoli sociali…
Non sto qui a decidere se sia più coraggioso scappare o tentare di costruirsi ciò che manca, mi è rimasto solo un pensiero che, rodendomi come un piccolo tarlo, mi procura ancora qualche brivido lungo la schiena: mi sa che non è affatto detto che sia la sua, la scelta più rischiosa delle due.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Il film è tratto da un libro di Krakauer (un famoso alpinista esperto di scalatenel profondo nord e nel profondo sud del globo) che è ancora più avvincente.
Ti consiglio di leggerlo, io l'ho fatto almeno 5 anni fa e mi sono veramente emozionato.
Una storia vera, basata sul diario lasciato nel magic-bus
Il libro fa capire, meglio del film, che Mccandless, dopo il suo lungo percorso di due anni e dopo l'inverno passato in solitario in Alska, aveva finalmente compreso che la felicità deve essere condivisa e che, comunque, non può essere raggiunta al di fuori di un sistema di relazioni che, magari, limitano la tua libertà personale ma che ti danno la possibilità di donare qualcosa agli altri.
Il ragazzo, cambiato da questa esperienza, aveva così deciso di tornare ma la piena primaverile del fiume lo bloccò nel magic-bus; le bacche velenose fecero il resto. Krakauer riporta inoltre che se egli avesse proseguito per una decina di chilometri a Nord, avrebbe trovato un ponte di fortuna, costruito dai cacciatori per tornare indietro.
Una brutta fine, una triste storia che ci fa riflettere molto, come hai fatto tu.
Saluti da Pier Luigi (un settantenne ancora capace di emozionarsi, come il vecchietto del film!)

Anonimo ha detto...

Damu pa kmu to?.. Nano ni klase blog man?