3 dicembre 2007

El Guapo - Super/System

È uno dei leit-motiv di chi ascolta musica indie: ciò che ha successo è da disprezzare. È sicuramente un punto di vista molto snob, piuttosto antipatico e pure un po’ supponente, però bisogna riconoscere che ha un suo fondamento. In poche parole si basa sul fatto che il gusto medio, quello che costituisce i grandi numeri e quindi il successo, è basato su un grado di competenza per forza di cose molto superficiale. Non mi riferisco solo alla musica ovviamente, ma pure alla letteratura, al cinema, alla pittura e pure, uscendo dall’ambito più rigirosamente artistico, pure allo sport, alle auto, alla moda, alla cucina [sto palesemente cercando solidarietà: provate a pensare qual è il campo in cui vi sentite più ferrati della media e valutate quanto sono diverse le vostre preferenze rispetto a quelle della maggioranza delle persone]. Sembra esserci una legge matematica che soggiace a questa constatazione, ma forse è solo sociologia: non abbiamo la possibilità materiale di approfondire tutto quello che ci interessa e quindi siamo superficiali nella maggior parte dei casi (se va bene. Volendo possiamo anche essere superficiali su tutto). Ed essere superficiali significa pure essere più esposti agli stimoli promozionali e commerciali che hanno una ragione di essere nella semplicissima constatazione che la fruizione dei nostri interessi ha pure un risvolto economico, cioè siamo disposti a pagare per soddisfare le nostre curiosità e tanto meno siamo smaliziati, tanto più siamo inclini ad accettare consigli e suggerimenti da sirene pubblicitarie e propagandistiche.
Un corollario all’equazione di successo = di bassa qualità è l’affermazione se possibile ancora più snob che, viceversa, ciò che è di nicchia e poco apprezzato dal grande pubblico è automaticamente apprezzabile. Questa è un’affermazione che, sebbene possa essere in un certo senso seducente, all’atto pratico trova talmente tante eccezioni da rivelarsi del tutto infondata. Basti pensare a tutta l’immondizia che infesta qualsiasi campo dello scibile, che è talmente di basso livello da non potere neanche essere gradita dai fruitori più distratti. E pure, dato che sono convinto che il successo di pubblico sia determinato in buona misura dalla spinta promozionale, è sufficiente che questa spinta non ci sia perché la visibilità di un prodotto sia pressoché nulla, a prescindere dal suo valore effettivo.
Eppure rimango convinto che sia proprio nel troppo vasto mondo del misconosciuto che si trovino le gemme più preziose ed è per questo motivo che negli ambiti in cui sono più appassionato, la musica per esempio, cerco con brama qualsiasi indicazione o dritta che mi possa svelare qualcuno di questi tesori.
Una delle mie bussole preferite in questo ambito è un libro che si intitola “Rock e altre contaminazioni”, scritto dai giornalisti di Blow Up (mia bussola mensile) che ha la pretesa di elencare e descrivere i 600 album a dir loro fondamentali per comprendere l’evoluzione e la storia del rock (lo potete trovare qui). Va da sé che, di queste sei centinaia di dischi, si possano contare sulle dita quelli che hanno riscosso un vero ed universale successo commerciale, per cui, anche solo per scoprire nuovi nomi, trovo che sia un libro interessantissimo. Ma magari ci tornerò su più in dettaglio un’altra volta.

Oggi mi preme condividere una scoperta che ho fatto grazie ad esso. Si tratta degli El Guapo, un trio proveniente dalla zona di Washington D.C. che ha fatto questo disco talmente poco diffuso da essere persino difficile da recuperare dai percorsi p2p. Lo sto ascoltando da qualche giorno e mi sento travolto dall’entusiasmo per la scoperta di una tale meraviglia. Non mi è facile descrivere di cosa si tratta, perché è una cosa che io non avevo mai sentito. Certe eco ci sono, danno dei riferimenti, e si orientano nell’ambito di una rielaborazione della new-wave, ma sono talmente rimaneggiati alla luce non solo di quello che è venuto dopo (techno, noise, post-rock…), ma pure da quello che c’era prima e che la new-wave, proprio nel suo essere “new”, aveva ripudiato: prog, kraut, pure jazz e jazz-rock e qualche strizzata d’occhio al buon vecchio Zappa, il tutto talmente ristrutturato, dicevo, da perdere qualsiasi connotazione di nostalgico revival.
Ne è venuto fuori un lavoro composto da ben diciotto tracce, alcune a dire il vero brevissime, ma che devono la loro concisione non all’essere dei riempitivi quanto al fatto di essere sufficienti a se stesse, dall’essere un discorso che non richiede ulteriori sviluppi. Le tracce invece di lunghezza più usuale hanno solo questa in comune a canzoni ordinaria fattura: fin dalle prime battute rivelano strutture sghembe, a volte complesse e a volte scarne ma mai, in nessun modo, banali e che evolvono puntualmente verso derive affascinanti.
Ritornando al discorso iniziale, la scarsissima visibilità (ho faticato davvero parecchio a procurarmelo) di un lavoro come questo, è molto probabilmente e semplicemente dovuta ad una esiguità di mezzi finanziari di chi l’ha prodotto, scarsa possibilità di promozione, pure in ambiti specialistici, assenza di video, bassa propensione al divismo degli autori, ma è pure imputabile, e qui salta fuori l’orgoglio snob, ad una sua elevata sofisticazione, troppo elevata per essere apprezzabile senza un’adeguata conoscenza delle possibilità dell’espressione musicale.
Chiaro che io, proprio per orgoglio, preferisco propendere per la seconda motivazione, ma insisto col dire che non si tratta solo di autocompiacimento: sono davvero convinto di essere alle prese con un capolavoro e ho bisogno di giustificazioni di vario tipo per comprendere perché non sia conosciuto ed apprezzato per quel che merita.

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