24 agosto 2009

Jonathan Trigell - Boy A

Da un po’ di tempo a questa parte sono pervaso da un sentimento decisamente poco condiviso. Si tratta di una riflessione su ciò che può voler dire essere rinchiuso in prigione e la sostanza del mio sentimento è che privare un uomo della propria libertà, impedirgli di fatto di vivere, sia una cosa totalmente disumana, mostruosa.
Sì, poi lo so, tutte le obiezioni a questa mia ipersensibilità sono tutte valide: chi viene rinchiuso in una cella sarebbe pericoloso se lasciato andare in giro, queste persone hanno privato altre persone della loro libertà (se non della vita), una qualche forma di punizione a mo’ di deterrente deve pur essere trovata, e così via.
Tutte obiezioni validissime. E in effetti il mio sentimento è davvero poco condivisibile, mi rendo conto.
Ciò non toglie però che l’idea di una persona a cui viene impedito di essere libero, e che questa coercizione venga imposta da un’autorità superiore (la Giustizia), composta da uomini che liberi lo sono e che vengono investiti del (legittimo) potere di decidere della libertà altrui, mi mette i brividi. So che non è razionale forse, ma è così.
Mi sono trovato quindi particolarmente coinvolto a leggere questo libro.
Racconta la storia di un ragazzo, rinominato Jack, che uscito di galera in Inghilterra dove era stato rinchiuso per avere commesso uno dei delitti più atroci che la recente storia di quelle parti ricordi, viene aiutato a reinserirsi in società tramite un programma tipo quelli di protezione dei testimoni: una nuova identità, una nuova città, un lavoro elementare ma sufficiente a mantenersi, un supporto psicologico. Ma non è affatto semplice, e su questa difficoltà, aggravata dal fatto che sulla vicenda iniziale -il Delitto-, la stampa sensazionalistica locale (The Sun, per intenderci), aveva impostato una campagna di linciaggio che la notizia della scarcerazione ha rinfocolato ulteriormente, sulla difficoltà di questo reinserimento si sviluppa la trama del libro.
La storia è palesemente ispirata alla tragica vicenda di James Bulger, un bambino ucciso nel 1993 da due altri bambini. Chi avesse voglia di rovinarsi l’umore si vada a leggere la descrizione della vicenda quaggiù. Io non ho abbastanza stomaco per raccontarla.
In ogni caso, dopo avere scontato la pena in vari istituti penitenziari inglesi, i due baby-mostri sono stati scarcerati con un programma di witness-protection simile a quello descritto nel libro. Ed analoga è pure la feroce campagna con cui i tabloid inglesi chiesero a gran vode la condanna più severa possibile per quei due assassini. E confesso che leggendo la vicenda del piccolo James, pure io, nonostante il buonismo che dicevo all’inizio, mi troverei in difficoltà a non condividere la rabbia di simili campagne.

In definitiva questo è un libro davvero toccante, riesce a trasmettere il peso di quella colpa lontana ma inestinguibile che pesa sulle spalle del protagonista, la sua speranza di rifarsi una vita, la difficoltà di inserirsi in un mondo dal quale era stato espulso da bambino e sul quale si riaffaccia da adulto, la gioia per la scoperta delle piccole cose che a noi sembrano così ovvie, la paura di essere riconosciuto…
E non manca quindi la possibilità di fare qualche riflessione un po’ più profonda del solito su che cosa sia un delinquente, un assassino, un criminale. Etichette che istintivamente si affibbiano a persone con lo stesso criterio con cui si dice avvocato, cantante, farmacista, trascurando non solo le innumerevoli sfaccettature di cui è dotata una personalità reale, ma pure e soprattutto di quanto sia scorretto etichettare per sempre un uomo sulla base di un suo singolo, atto, per quanto efferato questo sia.

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