Ieri sono finite le Olimpiadi invernali e ancora ho nelle orecchie i discorsi e le polemiche per gli scarsi risultati degli atleti italiani (per chi non le avesse seguite: una sola medaglia d’oro contro le 5 di Torino 2006) che non sarebbero poi tanto preoccupanti se non seguissero di qualche mese la figuraccia dei mondiali di atletica di Berlino dove di medaglia non ne abbiamo raccattata neanche una.
Si parla di cultura sportiva, si parla di strutture, si parla di scuola, si parla di scarsa propensione alla fatica. Si parla pure di Facebook (Alberto Tomba: “oggi i ragazzi… tutto il tempo su facebook… io non vedevo l’ora di uscire…”).
I discorsi sono tutti veri e probabilmente individuano alcune reali cause dello scarso successo dei nostri colori in ambito sportivo, ma ho come l’impressione che siano focalizzati un po’ troppo sugli atleti e troppo poco sulle strutture che stanno loro alle spalle. Dietro ad un atleta che taglia per primo il traguardo in una competizione mondiale c’è una struttura enorme, fatta di tecnici, di strumenti, di dirigenti, di impianti sportivi, di competenze e a mio avviso il vero nodo della questione è proprio da quelle parti e inizio a temere che sia dovuto allo stato di marciume che sta rivelandosi in ogni struttura italiana, da quelle politiche a quelle imprenditoriali, a quelle organizzative,… dove ogni dinamica è regolarmente impostata sul clientelismo, sulla raccomandazione, sulla bustarella, sul favore o sulla puttana di turno.
E in un sistema dove non si premiano i reali meriti, ma solo le convenienze clientelari, non riesci a creare dei veri vincitori. Nello sport soprattutto, dove la competizione è tutto e alla fine barare è troppo difficile, almeno fuori dai nostri confini.
Invece tutto il mondo dello sport continua a puntare il dito al di fuori di sé, alla scuola che non valorizza l’ora di ginnastica, ai giovani che non praticano sport al di fuori del calcio.
Beh, ieri ho portato Carlotta al suo primo raduno di mini-volley, la prima uscita al di fuori dei suoi “allenamenti” (per chi non la conosce: ha 6 anni, per questo metto le virgolette). Durante questo raduno (concentramento lo chiamano) ha potuto giocare con sue coetanee di altre squadre.
Il tutto si è svolto in una palestra e lo spettacolo a cui ho assistito mi fa proprio pensare che i discorsi sui giovani che non praticano sport siano delle gran balle.
Innanzitutto l’incontro non era solo per le seienni, ma a tutte le categorie del minivolley, che va fino ai dieci anni, più o meno. Le squadre coinvolte erano sei o sette, ognuna con almeno 15 bambini, per un totale di più di cento atleti.
Il campo (una palestra) è stato diviso in 9 piccoli campi di dimensioni differenti a seconda dell’età dei giocatori e poi sono stati organizzati 9 tornei di 4 squadre che si svolgevano ognuno su un campo diverso.
Per ogni torneo c’era un arbitro, cioè un ragazzino o ragazzina di età appena maggiore (14-15) anni che seguiva le partite con fare professionalissimo.
Ogni squadra aveva il suo allenatore, altro ragazzo o ragazza un poco più grande che seguiva il gioco dei bambini (per quelli più piccoli, che giocano una cosa che si chiama “palla rilanciata”, l’impegno è costante: devono continuamente spostarli per il campo per fargli tenere la posizione, spiegargli continuamente cosa fare, coordinare le rotazioni…).
Poi alcuni coordinatori che si occupavano di organizzare i turni degli incontri e seguire i bambini nelle loro necessità, difficoltà, paure, esigenze (“devo andare a fare la pipì” è una frase più che ricorrente).
Poi il “capo della baracca”, una ragazza di meno di trent’anni che coordinava il tutto.
Tutto questo si è svolto in una palestra in provincia, spontaneamente e con grande entusiasmo da parte di tutti, compresissimi nei loro ruoli. Io assistevo allo spettacolo dall’alto e vi assicuro che vedere un tal movimento di palloni, bambini che giocano, tutti con le loro divise, capelli raccolti, impegno, gioie e delusioni per più di due ore, è stata un’esperienza da aprire il cuore, veramente bellissimo.
Purtroppo non ho fatto foto, per cui non riesco a fare vedere com’era esattamente il colpo d’occhio. Comunque immaginate una cosa del genere vista dall’alto e con ancora più partecipanti:
Tra una partita e l’altra cercavo di vedere la cosa con occhi un po’ più distaccati di quelli del papà e riflettevo che se avessi visto una cosa del genere in Germania o Scandinavia, sarei tornato pieno di ammirazione a raccontare quanto sia profondamente radicata e ben organizzata la cultura sportiva in quei paesi meravigliosi. E poi sì che vincono medaglie a bizzeffe, loro!
E la scorsa settimana Lorenzo aveva partecipato ad una cosa del tutto analoga, sia come organizzazione che come entusiasmo, incentrata sul basket.
Tutto questo solo per raccontare un po’ di fatti miei, ma soprattutto per smentire il fatto che in Italia non ci sia cultura sportiva giovanile. Questa c’è eccome, e c’è con tutto l’entusiasmo tipico sia dei bambini che dei loro giovani genitori. Quello che manca è poi la capacità dei soloni dello sport italiano di raccogliere questo preziosissimo “materiale umano” e di farne degli atleti come si deve.
Tanto per non dare sempre la colpa agli atleti, insomma.
1 marzo 2010
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