L’imprescindibile Pitchforkmedia dice che Wyatt ha la voce più triste del rock. Non sono d’accordo, c’è sicuramente di peggio (Scott Walker?), ma effettivamente il tono delle sue corde vocali si adatta perfettamente al clima grigio e autunnale di questi giorni di fine ottobre.
Per chi non lo conoscesse (ma chi viene a leggere qui le mie cose ne ha già fin troppo sentito parlare, tanto da rendermi quasi passibile di fanatismo), Robert Wyatt non è un ragazzino e non è neppure uno di quelli che quando fa musica affronta la cosa alla leggera. Stiamo parlando di uno splendido sessantenne, ammirato e adorato da tutto il settore più impegnato del panorama musicale mondiale, autore e coautore di capolavori che hanno fatto la storia del rock, di quelle persone a cui la vita ha dato e tolto pesantemente, che ne ha forgiato l’estro in modo sublime, nel bene e nel male.
Quando uno ha una simile biografia sulle spalle, è inevitabile che ad ogni sua uscita il pubblico adorante si aspetti una nuova rivelazione, un’altra lezione. Ed è pure inevitabile che chi è gravato di tante aspettative tenda a nicchiare: in una recente intervista Wyatt dichiara che lui dà un peso relativamente basso alla sua musica, che gli dedica impegno ed attenzione solo quando compone e registra, per poi disinteressarsene completamente tutto il resto del tempo.
Ma allora, al di là del personaggio, su cui ci sarebbero davvero tantissime cose da dire e scrivere, com’è sto disco?
Quasi bellissimo.
Mi spiego meglio: contiene 16 brani per un’ora esatta di musica. È diviso in tre sezioni (o atti), che contengono ognuna episodi piuttosto eterogenei, anche se si può grossolanamente dire che la prima è la più wyattiana vecchia maniera, con quelle melodie che sfuggono sempre dalla prevedibilità proprio quando sembra di averne intuito la direzione, la seconda parte è la più folk, nel senso globale del termine, con accenni dylaniani, caraibici, swing e contiene quello che secondo me è uno dei momenti più alti del disco, Out of the blue (che non è affatto folk). Il terzo atto abbandona infine l’inglese per spaziare da una cover dei nostrani C.S.I. (Del Mondo, è strano sentire cantare l’italiano in questo modo), una Cancion de Julieta che musica un testo di Lorca e un omaggio al Che Guevara, ancora in spagnolo con accenni di rumba. Questa scelta, ha dichiarato lui stesso, ha a che fare col suo “sentirsi completamente alienato dalla cultura Anglo-Americana”.
Che dire, dunque? Tanto di cappello ancora una volta di fronte a tanta bravura. Il “quasi” del mio lapidario giudizio più sopra è dovuto ad alcuni (tre, non di più) brani di livello più basso della media decisamente alta del resto del disco.
Infine: per un po’ sono stato dibattuto se mettere come al solito l’immagine della copertina o un primo piano di Wyatt, tanto trovo intenso il suo volto. Faccio entrambe le cose, su la copertina, qui sotto il ritratto.
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