Sabato sera, come non mi capitava ormai da parecchio tempo, mi sono dedicato anima e cuore all’assistere ad un evento sportivo. Lo sport in questione anch’esso non è propriamente una mia abitudine, si trattava infatti di rugby e in particolare della partita tra Italia e Scozia, partita che metteva in palio l’accesso ai quarti di finale del mondiale che si sta svolgendo in Francia.
Per questo evento avevo deciso di coltivare una delle mie occasionali passioni. “Deciso” e “passione”, lo so, sono termini che mal si accoppiano, ma io ogni tanto lo faccio: capisco o scopro che un certo argomento è degno della mia attenzione, e inizio ad approfondire, a informarmi, fino scovare un entusiasmo che effettivamente è difficile che diventi passione bruciante, ma molte volte si consolida almeno in un solido interesse. Magari prima o poi scriverò delle altre mie infatuazioni estemporanee.
Tornando al rugby, in previsione di questa partita mi sono documentato leggendo “L’arte del rugby”, un agile libercolo di un certo Spiro Zavos, giornalista sportivo neozelandese, dove questo sport è molto più che una passione: è uno scopo di vita per un intero popolo. In questo libro, oltre ad alcuni tratti di storia, aneddoti, memorie e memorabilia, c’è un introduzione al gioco e al suo regolamento. Questa sezione in particolar modo è stata per me utilissima, per due motivi fondamentali: primo perché ne sapevo davvero un po’ troppo poco, e non c’è niente di più frustrante che assistere a qualcosa senza capire cosa sta succedendo, e poi perché viene detto che in fondo pure il più grande realizzatore di mete della storia, David Campese , ha confessato di non conoscere a fondo tutte le leggi (nel rugby ci sono leggi, non regole) di questo sport. E che anzi, queste leggi, cito testuale, “come in ogni sistema democratico, non si è tenuti a conoscerle tutte. Per chi guarda e chi gioca (non per chi arbitra) è sufficiente avere assimilato i principî della Costituzione del gioco”. E questo mi ha messo la coscienza a posto e mi ha convinto che avrei potuto guardare e godere una partita anche senza sapere con precisione il perché di ogni fischio dell’arbitro.
Così sabato sera era pronto, ho dovuto sistemare alcuni dettagli logistici (la RWC, Rugby World Cup, 2007 la danno solo su Sky), ma poi mi sono concesso questo spettacolo.
Come dicevo si trattava dell’ultima partita per l’Italia e la Scozia nel girone preliminare dell’RWC, e chi avesse vinto sarebbe passato ai quarti di finale. Il pareggio nel rugby non è contemplato. Cioè, capita, ma non viene preventivato, sarebbe impossibile, si gioca per la vittoria.
La Scozia era avanti di due punti in classifica, e ciò, unito alla tradizione e al fatto che su nelle Highlands un’eventuale sconfitta sarebbe stata vissuta come una disfatta nazionale, metteva l’Italia nella posizione sì di sfavorita, ma pure con molto meno da perdere, e questo si sa, può essere un vantaggio.
Da quando è iniziata la partita fino all’ultimo minuto sono stato in tensione appollaiato sul bordo del divano come non mi capitava da un sacco di tempo. Il rugby è uno sport micidiale oltre che per le ossa di chi lo pratica, pure per i nervi di chi lo guarda: velocità, capovolgimenti di fronte, lotta strenua su ogni pallone, battaglia vera in ogni azione. Di fatto la melina è impossibile: la legge dice che il giocatore senza palla è intoccabile, ma chi ha in mano quell’ovale di cuoio è bersaglio supremo e senza scampo di tutta la squadra avversaria. E stiamo parlando di atleti da più di un quintale l’uno. E velocissimi, pure. Quindi il gioco è frenetico, sempre sull’orlo dell’errore (questo soprattutto perché sabato sera a Nancy pioveva, e la palla era una saponetta, e il campo sembrava ghiacciato), un campo che prima dell’inizio sembrava grande, poi occupato perfettamente dalle due squadre sembra talmente piccolo che in molte occasioni le azioni si dovevano concentrare in un corridoio di un metro lungo le linee laterali e davano l’impressione che se lo spazio fosse stato il doppio, il triplo, un chilometro, ancora la foga di quei 30 atleti enormi non si sarebbe accontentata.
Per me c’è stata una meta da balzare in piedi urlante, errori da sbattere i pugni sui braccioli, azioni da spingere in avanti proteso verso lo schermo. Per loro ottanta minuti vissuti senza risparmiare un briciolo di energia e di coraggio, tesi continuamente senza tregua verso l’obiettivo: quella riga bianca laggiù, in fondo al campo, oltre alla diga di muscoli e furore della squadra avversaria , dove andare a depositare finalmente la palla.
È poi finita 18 a 16 per la Scozia, a pochi secondi dalla fine l’Italia ha pure avuto l’occasione, remota ma concreta, di agguantare il vantaggio, ma un tiro da quasi 50 metri è passato a meno di un metro dal bersaglio, quei pali strani che ricordano come il rugby sia un evoluzione del calcio. Per quanto mi riguarda, visto pure lo stato del calcio, soprattutto dalle nostre parti, una strepitosa evoluzione.
1 ottobre 2007
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