La sera prima aveva suonato a Losanna e dopo il concerto era partito in macchina col suo produttore alla volta di Colonia, un viaggio di quasi 700 chilometri (poi uno dice della splendida vita dei musicisti, tutta donne, agio e champagne). Arrivati a Colonia raggiunsero l’albergo dove tentarono di riposare qualche ora, ma nessuno dei due riuscì a chiudere occhio, per la troppa stanchezza, l’orario sballato e pure, naturalmente, la tensione per il concerto che si sarebbe svolto la sera all’Opera Haus.
Già, l’Opera Haus: nel pomeriggio Jarrett fu informato che quella sera sul palco non avrebbe trovato uno Steinway gran coda.
Ora, non è che chiunque al mondo sia tenuto a conoscere il fatto che Jarrett suona sullo Steinway, ma se sei l’organizzatore di un suo concerto di solo piano lo devi sapere e, cascasse il mondo, te lo devi procurare, non c’è storia. Anche perché il carattere di Mr. Jarrett era già famoso nel 1975 e l’essere accomodante non era certo una sua caratteristica (come non lo è tuttora!).
Io immagino lo stato d’animo del suo produttore (Manfred Eicher, tra l’altro fondatore dell’ECM, gloriosa etichetta jazz), nel cercare di rabbonire quell’artista riottoso, dicendogli che il comune di Colonia aveva deciso di mettere a disposizione due Bösendorfer di cui uno in eccellenti condizioni. Chissà se per rassegnazione (quando uno è stanco cala pure il suo spirito combattivo) o perché comunque il Bösendorfer è uno splendido strumento e non è il caso di fare tanto gli schizzinosi, fatto sta che Keith Jarrett acconsentì.
Però il caso, la sfiga, o anche la cattiva organizzazione nonostante si tratti di Germania, ci mise ancora il suo malevolo zampino. Vai a capire perché, quando il pianoforte fu scaricato dal furgone e montato sul palco, ci si accorse che dei due Bösendorfer era stato recapitato quello sbagliato. E mentre uno era stato definito eccellente, l’altro si scoprì non essere neppure in mediocri condizioni, era proprio messo male, bassi senza vigore e acuti striduli, pare che non fosse neppure stato revisionato di recente (sembrava un piano da barrelhouse ha detto lui stesso). Di buono rimanevano solo i toni medi. Jarrett era sconsolato, lasciò che il piano venisse preparato sul palco dai tecnici e andò a cena.
Lì ci fu la goccia che avrebbe fatto traboccare qualsiasi vaso, tranne, per nostra fortuna, quello della pazienza di Keith Jarrett quella sera. Mangiarono in un ristorante italiano, caldo in modo eccessivo (era gennaio ed evidentemente il riscaldamento funzionava a pieno regime). Della tavolata di una decina di persone lui fu servito per ultimo (avete presente quando tutti gli altri ricevono i loro piatti e voi, coi crampi allo stomaco e il nervoso che cresce, dite, “no, no, non mi aspettate, iniziate pure, che vi si fredda”?). Ricevette il piatto poco prima di dovere partire per l’Opera, e si ingollò in fretta e furia per non fare ritardo. E il cibo era pure pessimo!
Arrivati all’Opera erano quasi decisi a non registrare, poi cambiarono idea: era tutto pronto, perché no? Poi al limite la si sarebbe buttata via.
L’inizio del concerto è interlocutorio, Jarrett prende le misure dello strumento, ne valuta, già improvvisando, le caratteristiche, i pregi e soprattutto i difetti. Poi poco per volta il rapporto tra uomo e piano si scioglie, si distende, e la musica decolla verso le vette che hanno reso famoso e inimitabile questo musicista. Dalla seconda parte in poi si delinea quello che è per gran parte l’approccio a quel concerto: la mano sinistra esegue un accompagnamento ossessivo, ipnotico, mentre la destra vola improvvisando sostenuta da quella potente base ritmica. Il finale è poi di nuovo più melodico, la quiete dopo la tempesta e ricalca schemi più tipicamente jazz.
Si dice che non sia il migliore concerto inciso da Keith Jarrett, ma sicuramente è un disco bellissimo, da consigliare, da regalare, da ascoltare ogni volta che si vuole assistere all’opera di un grande artista.
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