C'è una sorta di giochino che si svolge spesso in ambito musicale (ma anche letterario o a volte cinematografico) in cui si tratta di scegliere i 5 dischi "da isola deserta". In pratica: se ti trovassi a potere ascoltare la musica di soli 5 album per un lungo periodo di tempo, quali sceglieresti?
La scelta ovviamente di solito ricade nella zona dei propri album preferiti; io personalmente aggiungerei a questa caratteristica, pure quella di essere dischi che non ci stancano mai, quelli che ad ogni ascolto ne scopri qualche dettaglio ulteriore, qualche sfumatura nuova. Altrimenti, per belli che siano, se non ci danno più sorprese, alla lunga diventano inascoltabili.
In questi ultimi scampoli di vacanza mi sono trovato in una situazione vagamente simile a quella dell'isola deserta: poca disponibilità di musica di mia scelta e pochi momenti (quindi da dosare con cura) per dedicarmici.
Infatti il caso ha voluto che un po' di tempo fa avessi caricato sul mio telefonino l'album in oggetto. Poi, resomi conto che la qualità della riproduzione non era eccezionale, non ho aggiunto altra musica al dispositivo. Così in questi giorni, non essendomi portato dietro l'altro lettore, quello più zeppo di materiale, mi sono trovato a disporre di solo questo disco da ascoltare e mi ci sono dedicato con più impegno di quanto non avessi fatto quando l'avevo comprato.
Si tratta infatti di un disco impegnativo, non tanto all'ascolto in sé, quanto per la mole impressionante di invenzioni, sorprese, dettagli, colori e forme espressive che vengono proposti durante i 40 minuti dell'opera.
Inizialmente Mingus la pensò come un unica suite da abbinare addirittura ad un balletto, poi la sua megalomania scese a patti con esigenze pratiche e si "accontentò" di ridurla a 6 movimenti, di cui gli ultimi 3 costituiscono un unica traccia senza soluzioni di continuità. L'autore la definì una sua autobiografia dalla nascita al suo incontro con Parker e Gillespie, altri ci vedono la storia dell'oppressione dei neri e lo sfogo della mente follemente geniale di Mingus.
Io non so, trovo già sufficiente entusiasmo a lasciarmi trasportare dalle urla delle trombe in sordina (questo sì, evidente citazione e omaggio a Duke Ellington), alle accelerazioni, ai repentini cambi di atmosfera, agli improvvisi interventi della chitarra flamenco, al pianoforte, alle tempeste free-jazz e ai momenti di pura e precisissima orchestrazione, senza lasciarmi andare ad ulteriori intrerpretazioni, e vi assicuro che è già una gran bella esperienza.
Mingus lavorò a questo album come facevano i grandi di quel tempo: fornì vaghe indicazioni ai musicisti e si affidò al loro estro creativo per i dettagli, in modo da lasciare a naturalezza e creativtà la libertà di esprimersi al massimo livello. Poi però, visto che lui era un precisino e questo sistema lo convinceva sì, ma non proprio del tutto (nei primi anni della sua carriera cercava di fare suonare ai musicisti esattamente le cose che voleva lui, come da spartito, ma con risultati non soddisfacienti dato l'esprit libre tipico dei jazzisti), alla fine fece un meticoloso lavoro di post-produzione che gli permise di di giungere a quello che molti considerano il suo capolavoro.
Io il giochino dell'isola deserta non l'ho mai fatto seriamente (magari un giorno di questi...), ma di sicuro questo disco entrerebbe nella selezione. E se gli organizzatori fossero tanto sadici da imporre un unico disco, beh, forse porterei proprio questo.
1 settembre 2008
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
1 commenti:
Simpatica analisi. Ascolto oggi per la prima volta il disco e, ovviamente lungi dal lontano avvicinarmi a capirlo al primo ascolto, ne sono impressionato. Da una settimana ho un rigurgito di Mingusismo e, quando avviene, non ascolto altro. "The black saint" è un altro tassello al mosaico di un genio! Grazie delle informazioni!
Posta un commento