Nei miei trascorsi di “vorrei essere musicista” ho avuto modo di capire, tra le altre cose, quanto la scelta della copertina di un album sia un’operazione tutt’altro che banale. Insomma, quella è l’immagine che deve rappresentare tutto il contenuto e trattandosi normalmente di un insieme di 8-12 brani, che fino a quel momento erano solo musica, testi, ore di lavoro, prove, correzioni, idee geniali, frustrazioni, litigi, entusiasmi e pure immagini magari, ma talmente tante che poi a sceglierne una che le rappresenti tutte... e poi bisogna vedere se si trova nel formato giusto o se non è coperta da copyright… non è semplice, davvero.
Questa premessa è solo per parlare dell’ultimo degli Animal Collective, Strawberry Jam. Il punto è che mai come in questo caso copertina (qui sopra) e contenuto dell’album sono in sintonia davvero perfetta. Guardatela, un pasticcio di fragole schiacciate in una ciotola, immerse nel loro sugo, con le tonalità troppo scure dell’avanzata maturazione. Un piatto davvero difficile da presentare, poco invitante, di certo non gradevole allo sguardo. Eppure, ogni mamma lo sa, la frutta troppo matura, entro certi limiti, non è cattiva, anzi, è dolce, tenera, gustosa, solo bisogna sapere vincere il ribrezzo iniziale, poi, assaggiata a fatica la prima cucchiaiata, una porzione così può essere divorata in un baleno, con ingordigia.
E il disco in questione è decisamente dello stesso tipo: per stomaci forti, i suoni, le strutture dei pezzi, le armonie, i cori, tutto viene rappresentato in maniera davvero inusuale, a volte al limite del caotico, dello sgradevole. Però, facendo un po’ di fatica, avendo la pazienza di dargli credito, è un album meraviglioso, mai banale, che rivela una serie inesauribile di invenzioni, non un capolavoro forse, ma un gioiello sì.
Per chi non li conosce, gli Animal Collective sono un collettivo (e già utilizzare questo termine al posto dei più ordinari “gruppo” o “band” gli dà un aspetto meno coeso, disgregato) di New York, ma originario dell’immensa provincia americana, composto da personaggi che si chiamano Avey Tare, Panda Bear, Geologist, Deakin che fanno una musica originalissima, che non saprei come definire se non copiando e incollando quella che gli si dà di solito, Psych Folk, ben sapendo che però una descrizione del genere in realtà non descrive nulla.
Per quanto mi riguarda, questo gruppo ha inanellato 4 album magnifici, Here Comes the Indian (2003) , Sung Tongs (2004), Feels (2005) e appunto Strawberry Jam (2007) collocandosi così nella mia attuale top-five dei gruppi migliori sul pianeta.
Descrivere le differenze tra i vari lavori porterebbe via troppo spazio in questo post già prolisso, anche perché, e questo basti, la ripetitività non è certo una caratteristica dei nostri. In Strawberry Jam intessono delle trame sonore complicatissime, a volte quasi noisy, ma che con un po’ di attenzione rivelano un certo schema da cui scaturisce un ritmo, arzigogoli canori che alla fine rivelano un coro, con tanto di ritornelli e progressioni. E poi giocosi scherzi musicali che delineano l’aspetto più tradizionalmente psichedelico dell’opera.
Come al solito una descrizione come questa non descrive per nulla il contenuto di un disco (del genere poi!), ma se vi va di sentire cosa fanno, li trovate su MySpace, su YouTube e pure su Wikipedia. Almeno provateci.
21 settembre 2007
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