Quando mi imbatto in certe cose, come quelle di cui sto per parlare, mi viene puntualmente in mente una frase di una stralunata canzone dei Bluvertigo che diceva “Quello che so su alcuni argomenti viene dall'America”, frase che non calza proprio a pennello, ma che per me ultimamente è sempre più vera.
Il fatto è che, dopo essere riuscito a fare la tara ad alcuni atteggiamenti snobistitici del nostro continente, ho scoperto che gli americani sono molto più bravi di noi a raccontare le cose.
È fondamentalmente una questione di approccio. Se leggi un saggio scritto da un europeo, ti sembra che questo venga a dirti “Guarda che cose profonde che so, e guarda che considerazioni profonde ne riesco a fare”. Questo, al di là della vanità che sottintende e che a volte può anche essere del tutto giustificata, presenta un problema di fondo: se non sei già piuttosto competente sull’argomento, rischi di perdere il filo dei ragionamenti perché semplicemente ti mancano le basi. E a queste basi solitamente l’autore del saggio dedica poco spazio. “Sono banalità” sembra dirti, “non intendo dedicare tempo ed energia a raccontare queste ovvietà, ho premura di scendere in profondità per farti vedere che meraviglie ho scoperto”.
Solo che tu a scendere in profondità non sei ancora preparato, allora lo vedi scendere per conto suo sempre più lontano e sfocato, fino a perderlo di vista del tutto.
E allora il libro lo concludi per inerzia o lo chiudi per sempre.
Gli americani invece partono dal presupposto che il lettore non sappia neanche nuotare, altro che immersioni di profondità. Non si fanno neanche tanti scrupoli a trattarti da stupido o da ignorante, e questo di per sé potrebbe anche essere un po’ offensivo, soprattutto perché in genere se decidi di leggere un libro su un certo argomento, proprio da zero non parti. Insomma, almeno sai sguazzare.
Però, non sapendo:
- quanto bene sai nuotare
- a che profondità sai già immergerti
- e soprattutto da quanto tempo non lo fai
nel dubbio si parte da zero, ché un ripasso fa bene a tutti.
Così in genere le pagine iniziali sono un po’ noiose o superficiali, ma gli americani il loro pubblico non lo abbandonano mai, sanno tenerselo ben stretto, allora in genere i capitoli introduttivi sono zeppi di aneddoti, divagazioni divertenti o esempi curiosi, in modo che anche se proprio non si gratifica il lato più intellettuale del nostro cervello, almeno il divertimento è assicurato. E il libro rimane aperto.
L’approccio all’americana è quindi più vicino ad un “Ci sono cose bellissime che so e vorrei rendertene partecipe”, poi naturalmente ci sono ampie eccezioni e distinguo, da una parte e dall’altra, ma generalmente va a finire che è proprio così. E ne ho avuto esperienza in un sacco di ambiti, praticamente in ognuna delle mie brucianti passioni.
L’ultima conferma è stata leggendo questo libro di D.F. Wallace. Non si tratta propriamente di un saggio, ma di una raccolta di articoli scritti negli anni ’90 su argomenti piuttosto diversi tra loro. In America (sempre l’America…) giornalisti e scrittori scrivono certi articoli per certe riviste, lunghi decine di pagine, alcuni sono meravigliosi, alcuni sono tradotti in italiano e si trovano ogni tanto da qualche parte, ma in genere occorre affrontare la fatica dell’inglese. Ma ne vale a pena.
Comunque, questo libro raccoglie alcuni articoli di questo tipo a firma di DFW e spaziano su temi diversissimi tra loro, dalla Fiera Statale dell’Illinois a una lunga analisi dell’opera di David Lynch, dal rapporto tra narrativa e televisione al tennis professionistico.
Proprio quest’ultimo articolo è quello che più ho apprezzato. Si tratta di una specie di resoconto dei Canadian Open focalizzato sul tennista Michael Joyce.
Io non avevo mai sentito parlare di Michael Joyce e questo mi aveva tenuto lontano dall’articolo per parecchio tempo, poi, probabilmente a causa di Wimbledon, il mio interesse per il tennis è salito di un pochino e questo è bastato a spingermi ad affrontare l’articolo-sul-tennista-sconosciuto.
Ed eccolo lì, lo scrittore americano che ti prende per mano e ti accompagna in profondità:
In realtà DFW non dà affatto per scontato che io sappia chi sia, come gioca, quali sono i risultati di Michael Joyce. Anzi, parte proprio dal presupposto che io non lo conosca (lo dichiara nel secondo o terzo paragrafo, dove non ero neanche arrivato). In un certo senso vuole che io non lo conosca in modo da potere parlare in modo generico di quei tennisti incredibilmente forti che però non arrivano alla fama mondiale, perché non raggiungono la top ten. Cioè Wallace ci descrive quanto sia forte un tennista top 100 (Floyd raggiunse il 64° posto) perché i top 10, e ancor di più i numeri 1 sono addirittura indescrivibili.
E tramite lui ci racconta del tennis professionistico, della vita di questi atleti fatta di continui viaggi tra un torneo e l’altro, degli sponsor appiccicati sulle magliette a un tanto a partita, dell’infanzia dedicata alla racchetta. E in mezzo ci mette pure aneddoti sui campioni,i loro tic sul servizio, il loro aspetto visti dal vivo. E poi racconta della sua esperienza tennistica giovanile e la paragona a quella di quelli che poi sono diventati tennisti, il tutto nel suo solito stile fatto di brillantezza, divagazioni, smisurate note a piè pagina, dettagli, descrizioni.
Gli altri articoli sono in alcuni casi altrettanto piacevoli, in altri un po’ meno, in un caso anche molto seriosi, perché il DFW non era un comico e di tanto in tanto ci teneva a ricordarlo.
Minimum Fax ha pubblicato diverse raccolte di questi articoli di DFW in alcuni libri, tra cui il più famoso è forse Una cosa divertente che non farò mai più (il cui titolo è ripreso nel sottotitolo di questo), ma pure gli altri che ogni tanto mi trovo a leggere sono dei veri gioielli di giornalismo.
Purtroppo la brillantezza con cui scriveva non trovava eguale corrispondenza nella vita e alla fine questo geniale scrittore ha scelto il suicidio a 46 privandoci della sua preziosissima descrizione del mondo. Questa intervista, firmata da un simile geniaccio, fa un po’ luce su come si sentiva l’uomo David Foster Wallace lontano da quello che appariva nei suoi scritti. La sua descrizione degli effetti dell’astinenza da tabacco è da brividi.
20 luglio 2010
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