Questo campeggio infatti, oltre ad essere meta ideale per famiglie alla ricerca della natura e della quiete al di fuori dai grandi flussi turistici, è pure un ottimo campo base per chi intende cimentarsi nelle spettacolari arrampicate sul massiccio che lo sovrasta.
Io naturalmente faccio parte del primo gruppo, per i quali l’attività più rischiosa è l’accensione dei fornellini a gas per scaldare la colazione e la più faticosa l’addormentarsi in tenda sul terreno duro insaccati nel sacco a pelo.
Ma ogni tanto, preso nelle mie tranquille faccende, mi scopro incantato ad osservare gli alpinisti alle prese con la vita al campo. In genere sono taciturni, hanno i volti bruciati dal sole, utilizzano tende minuscole e scomode, hanno un’aria molto più trasandata degli altri vacanzieri. La sera soprattutto hanno l’aspetto stanco di chi ha dato fondo a tutte le proprie energie, ha ancora i muscoli indolenziti, i movimenti essenziali di chi non intenda fare inutilmente alcuno sforzo aggiuntivo.
E li guardo, e penso che nel fare quello che hanno fatto quel giorno hanno avuto coraggio, passione, forza, determinazione, e hanno messo a frutto esperienza e competenza, hanno affrontato pericoli sapendo che il prezzo da pagare in caso di imprecisione poteva anche essere la propria vita o addirittura quella dei compagni. E per questo (è scritto in qualsiasi trattato sull’alpinismo) sono stati in grado di valutare i propri limiti, hanno dovuto avere la prudenza di chi sa di essere nulla, un fuscello che la forza di quelle pareti immense può spazzare via con la solita indifferenza della natura.
Questa capacità di dosare tra loro in maniera sapiente e precisa tutte le doti non comuni che fanno di un uomo un buon alpinista, rivela in maniera evidente, sotto quelle pelli arse, sotto quei capelli arruffati, la luce invidiabile della saggezza.
Invidiabile. Ecco, lo ammetto: mi sono ritrovato ad invidiarli.
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