Mario Rigoni Stern l'ho conosciuto (letterariamente parlando) intorno ai miei vent'anni, sprofondandomi nei suoi due capolavori, Il sergente nella neve e Ritorno sul Don.
Poi di lui ho letto ancora poco, ma ogni tanto scovavo un suo articolo su Repubblica e lo seguivo volentieri nelle sue appassionate descrizioni delle sue montagne.
Ho amato tantissimo la sua scrittura piana, senza fronzoli, dritta al risultato. Se non fosse una banalità per un uomo con la barba, che ha fatto la guerra (e come!), che viveva solitario in montagna, che dispensava i suoi scritti con il contagocce, la definiresti una scrittura saggia.
E ora se ne è andato, in modo discreto, come al solito. Ha chiesto che la notizia della sua morte venisse data dopo i funerali, in modo che i suoi amici e familiari non venissero disturbati da quel mondo che lui gentilmente schivava.
Buona camminata, Mario.
Chiudo con l'incipit del Sergente, uno di quegli inizi che ti fanno chiudere il libro appena iniziato per qualche minuto, giusto il tempo di gustarti il sapore delle parole appena lette:
Ho ancora nel naso l'odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò le sue settantadue bombarde.
18 giugno 2008
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