30 settembre 2009

Tre anni

Nove anni fa, quando è iniziata questa orribile storia, avevo nella radio in macchina l'album omonimo di Max Gazzè.
Non avevo nessuna voglia di selezionare altra musica e non avevo nessuna voglia di ascoltare il silenzio, per cui lasciavo girare l'album di continuo durante quegli angoscianti andirivieni verso le Molinette.
Una canzone in particolare aveva la forza di una coltellata nel petto.
L'ho appena riascoltata. Il dolore è sempre lo stesso.
pensa se domani quando sarai sveglio
nessuno ti dirà quello che devi fare
pensa ancora a come inizieresti meglio
ad organizzare il tuo giorno
intorno duemila soldati
in abito blu

forse riusciresti ad ammucchiare il tempo
nel buco che lascia il loro sguardo vuoto
e ti diranno sbrigati sei troppo lento

ma non devi muovere un dito
fin quando non l'avrà deciso
la tua volontà

pensa se di colpo tutte le paure
finissero a terra come fanno le mele
qualcuno le ha spinte o le ha lasciate cadere

oppure è soltanto che tu
intanto avrai maturato
la tua realtà

tu dormi
dormi quanto vuoi...

29 settembre 2009

W. Tevis - La Regina degli Scacchi

Anche gli scacchi sono stati una mia bruciante&effimera passione. Non tanto effimera in realtà, perché hanno iniziato a piacermi da bambino e mi piacciono tutt’ora. Però non è stata neanche sufficientemente bruciante da spingermi a dedicargli il tempo necessario allo studio che richiederebbero per essere giocati ad un livello decente. E poi, come tante cose, è una questione di talento: se ce l’hai impari in fretta, giochi bene con poca fatica e riesci subito a fare il gradasso con gli amici. Se non ce l’hai, giochi più o meno sempre da schifo, e lo studio che gli dedichi porta pochi benefici, a meno che non sia uno studio maniacale.
E io il talento non ce l’ho. E allo studio non ho mai dedicato troppo tempo. Quale sia il mio livello di gioco è una conclusione ovvia.
Però mi piace leggere di scacchi, allora, quando ho adocchiato per caso questo libro in libreria, non ci ho pensato molto ad acquistarlo.
L’autore, Walter Tevis, è quello che ha scritto i libri da cui sono stati tratti Lo Spaccone e Il Colore dei Soldi, film incentrati sul mondo del biliardo con Paul Newman (e Tom Cruise) protagonista.
Do questa notizia bibliografica perché contiene ciò che mi aspettavo dal libro e che ho poi effettivamente ritrovato leggendolo: un’americanata, detto nel senso buono del termine. Cioè talento spettacolare che viene prima esaltato e poi sprecato, animo tormentato della protagonista, trama avvincente, caratteri un po’ poco approfonditi (a parte la protagonista, che si muove in un mondo di esseri senza spessore), lettura molto piacevole e scorrevole.
E poi gli scacchi. Non è per nulla facile raccontare una partita a scacchi: o si fornisce semplicemente la sequenza delle mosse, commentandola, o ci si appoggia ad una narrazione descrittiva, senza troppi dettagli e lasciando al lettore il compito di immaginarsi come vanno le cose sulla scacchiera.
Va da sè che in questo libro è stata scelta la seconda opzione, la prima è da libro specialistico, rivolto a chi abbia voglia di ricostruirsi la partita sulla scacchiera e seguirla mossa dopo mossa. In genere lo si fa per raccontare partite vere, tra grandi campioni. Per esempio in una biografia di Bobby Fisher ci starebbe benissimo.
In questo caso invece le partite sono descritte più che altro dal punto di vista psicologico, dal punto di vista delle emozioni vissute dalla protagonista che si ritrova via via ad affrontare giocatori sempre più forti in tornei sempre più di alto livello e la narrazione di queste sfide fornisce il pathos sufficiente a farci fare le ore piccole per sapere come vanno ogni volta a finire.
Avviso gli eventuali interessati che per leggere questo libro un po’ di conoscenza del gioco è necessaria. Per dire, bisogna sapere cos’è un gambetto, cosa implica un pedone in settima traversa o sapere che avere una torre su una colonna aperta può essere un bel vantaggio. Ma se queste cose le si conoscono, la lettura diventa scorrevole e avvincente come il resoconto di una partita o una gara di un qualsiasi sport conosciuto.
Come in quei film (americani, americanate) che ti incollano alla sedia e ti fanno tifare per il protagonista con coinvolgimento pieno.
Poi sul tema ci sono libri migliori (La difesa di Luzin è un paio di spanne sopra, per esempio), ma ogni tanto un po’ di svago ci va, e questo è proprio l’ideale.

25 settembre 2009

Vic Chesnutt - At the cut

Un paio di righe solo per dire che il nuovo album di Vic Chesnutt è di una bellezza sconvolgente.
Assaggiatelo sul suo sito.
O su MySpace.

24 settembre 2009

A Serious Man

Ieri sera ho avuto l'enorme piacere di rivedere Burn After Reading.
Ora non posso che essere fremente per l'uscita (a Novembre) della prossima creatura di J&E Cohen:

23 settembre 2009

Andrea De Benedetti - Val più la pratica. Piccola grammatica immorale della lingua italiana.

Il fatto è che lo studio della grammatica italiana, per quanto l’argomento possa essere affascinante, è un impegno davvero palloso.
Di per sé trovo che sia davvero intrigante cercare di capire quali siano le logiche, le regole e i meccanismi che si celano sotto una delle attività tra le più spontanee della nostra vita, comunicare verbalmente. Noi parliamo, scriviamo, mandiamo sms in italiano (più o meno, dipende) e riusciamo, a volte, a realizzare delle costruzioni anche molto complesse, ardite a volte, e tutto questo lo facciamo spontaneamente, senza pensare alle regole grammaticali che stiamo usando, ma ciò nondimeno, le usiamo continuamente, e corrughiamo la fronte dal fastidio quando avvertiamo una loro violazione, anche se poi non sapremmo dire quale regola sia stata effettivamente violata, come si chiama e come viene formulata nei suoi termini più generali.
Queste constatazioni, assieme alla lettura di uno di quei libri che sono fonte di ispirazione per la vita, mi avevano lanciato verso un entusiastico studio ed approfondimento della materia.
Poi, come spesso purtroppo capita, gli approfondimenti seri diventano presto seriosi e l’entusiasmo si spegne repentinamente se non c’è un forte stimolo a proseguire. Nella mia libreria rimangono quindi un paio di libri di grammatica, che, pur essendo preziosi supporti nella soluzione dei dubbi che negli anni scolastici dei miei figli stanno diventando sempre più frequenti, non mi sognerei mai più di leggere dall’inizio alla fine come mi ero riproposto mentre li acquistai.
Il motivo è che l’argomento, così affrontato, è mortalmente tedioso. E allora, dopo aver gioito per la scoperta dei segreti che si celano sotto i nomi, dopo avere sviscerato le regole che sottendono l’utilizzo degli aggettivi, dopo avere affrontato la scivolosità dell’uso dei pronomi,… mi sono rotto un po’ le palle, per capirci. L’approccio sistematico di questo tipo, benché non si possa assolutamente dire arido, alla lunga diventa un po’ noiosetto.

L’interesse di cui sopra però rimane, tutto sta nel trovare una sua trattazione meno rigorosa.
E il libro in oggetto è esattamente ciò di cui avevo bisogno: un approccio serio e preciso, ma senza cadere nel tassonomico.
Il tema centrale è una sorta di battaglia contro quelli che l’autore chiama neo-crusc, ossia quelle persone che nel tentativo di difendere la lingua italiana dall’imbarbarimento, si arroccano su posizioni pressoché integraliste e intolleranti, senza rendersi conto che le regole che vanno brandendo come armi sono esse stesse contraddittorie, piene di eccezioni, già serenamene violate da illustrissimi autori e ormai praticamente (val più la pratica) trasgredite in tanti e tali modi da non potere essere più neanche definite regole.
Con questo intento, combattere le insostenibili rimostranze dei neo-crusc, Debenedetti affronta con piglio efficace e accattivante alcuni (non tutti, è vero) meccanismi della lingua italiana, dimostrandosi indulgente verso quelli che considera peccati veniali, soprattutto nell’uso parlato della lingua, spiegando che alcuni di questi sono errori che commettiamo tutti, nessuno escluso, quando parliamo (uno per tutti: l’anacoluto) e cerchiamo di esprimere un pensiero in maniera efficace e veloce magari sacrificando qualche norma grammaticale.
Questa sua battaglia è però più che altro un pretesto, perché forse certi intransigenti personaggi che lui descrive non esistono neanche. È un pretesto per affrontare alcuni temi della grammatica, per presentarli sotto punti di vista inconsueti arrivando anche, in certi passi, a un approccio decisamente tecnico. Quando succede però l’autore se ne scusa, ma a volte è inevitabile.
Ne viene fuori una trattazione insolita (mi pare, non sono certo un esperto) e gradevole, fuori dagli schemi più noiosi, ma senza cadere nel troppo semplice e, ammesso che l’argomento piaccia, sempre su toni decisamente interessanti.
Quindi se vi incuriosisce sapere come si configura l’enorme differenza tra dire al ristorante “Pago io” o “Io pago”, date una chance a questo libro, non vi dispiacerà.

22 settembre 2009

21.097

21.097 metri, cioè circa 16.000 passi. È l’impresa che ho compiuto domenica scorsa partecipando alla mia prima gara podistica, la Turin Half Marathon.
Half Marathon sta ovviamente per “mezza maratona”, nel senso che la distanza è esattamente la metà, ma a parte questo pare che abbia poco altro a che spartire con la regina delle corse, dato che fare 42km e passa è tutta un’altra storia, fisiologicamente e psicologicamente, oltre ovviamente alla fatica in sé.
Per cui, quando su una rivista ho letto un articolo che incitava i podisti dilettanti a correre su quella distanza, ho lanciato la sfida a me stesso e mi ci sono iscritto.
Fare una gara significa prepararsi ad essa, e io negli ultimi 2 mesi e mezzo l’ho fatto con una precisione scientifica: tre allenamenti alla settimana, sveglia all’alba, o prima, per sfuggire il caldo estivo, sforzi a volte anche eccessivi, paura di farmi male. Ma con l’impressione esaltante, cronometro alla mano, che il lavoro stesse dando i risultati sperati con invidiabile generosità.
Così domenica sono arrivato alla partenza con una sensazione che francamente mi è capitata poche volte nella vita: l’idea che stavo per affrontare una prova importante (è una gara da amatore, lo so, è una cazzata, lo so, non è “veramente” importante, lo so, però alla fine lo diventa, come per tutti quelli che erano lì con me) perfettamente preparato, senza sensi di colpa per essere stato indolente, senza timori che le cose andassero storto, di fare grame figure.
E in effetti è stato così: mi sono divertito un sacco, dallo sparo alla partenza al passaggio sotto il traguardo alla fine. In mezzo ci sono state sensazioni sempre belle, esaltanti. Lo slalom iniziale tra la folla dei concorrenti più lenti, la corsa per le vie di Torino chiuse al traffico e dedicate alla gara, il sorpasso lento ma inesorabile di così tanti concorrenti (!), l’essere uno di quelli a cui gli addetti ai ristori si dedicavano a passare bicchieri e spugne con sollecita efficienza, il cronometro al polso che continuava a segnare tempi più bassi del previsto, il cielo che si manteneva clementemente coperto, le gambe che giravano bene, gli applausi della gente per strada (applaudivano me! Perfetti sconosciuti che mi incitavano!). Poi è arrivata la fatica, ma solo alla fine, solo negli ultimi chilometri, ma anche questa è stata una sensazione positiva, perché significava che avevo corso al massimo, che non avevo risparmiato nulla. E l’ultimo chilometro è stato da sofferenza pura, da denti stretti, da “corro ancora solo perché sta per finire”, da “se non finisce muoio”, da “non mollo, ma mi butterei per terra”. E poi il traguardo, col cronometro che segnava un tempo che non avrei mai sperato, e la gente che applaudiva, la voce dei miei bambini “dai papiiii!!!” e infine il traguardo superato, la gioia, la soddisfazione. La fatica che diventa orgoglio e appagamento.
E poi quella cameratesca solidarietà di chi ha condiviso le tue fatiche: i complimenti reciproci, il rispetto, l’ammirazione.
21.097 metri di sana e gioiosa fatica. Un’ora e mezzo[*] di concentratissimo e esultante impegno, senza tregue e senza cedimenti.
Ma quando mi ricapita?
Alla prossima gara, ovviamente!

[*] Anche meno: esattamente 1h27'05" (1h26'17" effettivi)

15 settembre 2009

David Sylvian - Manafon

(All’inizio di questo post c’è solo un’interminabile serie di chiacchiere mie. Chi è interessato a sapere com’è il disco, salti pure all’ultimo paragrafo)

Io ho tutta una serie di musicisti con cui una volta mi dicevo incazzato. L’archetipo di questo personaggio era Pino Daniele, un musicista una volta dotato di talento, che agli inizi della carriera aveva fatto anche delle cose interessanti, dimostrando capacità non proprio comuni e che poi, raggiunto il successo, non solo si è adagiato nel cercare di ripetere la stessa formula che lì lo aveva portato, ma addirittura a scendere di livello, alla ricerca di un consenso pop ancora più vasto, con buona pace della qualità della musica prodotta, e con la speranza (a volte realizzata, a volte manco quello) di rendere il proprio singolo accattivante per radio e supermercati.
Naturalmente Pino Daniele era solo uno dei tanti, dato che questo atteggiamento è diffusissimo. Altri che accomunavo nella stessa cricca erano Sting, Santana, gli U2, i Pink Floyd, i Depeche Mode, …
Secondo il mio ragionamento, pure una persona che ama davvero la musica (e per arrivare a certi livelli occorre avere una passione smodata, su questo non ci son dubbi), ha ovviamente delle esigenze pratiche (leggi: bisogno di soldi) e una vanità che lo può comprensibilmente spingere verso il successo commerciale. Però, una volta raggiunto questo, una volta messo sotto il materasso un bel mucchietto di soldini, non dovrebbe essere naturale che torni ad occuparsi a quella sua passione originale, fregandosene degli aspetti commerciali, delle melodie orecchiabili, del posto nella top-ten, di come vengono le foto nei poster pubblicitari?
E invece no, maledizione! Canzoncine da quattro soldi propinate a ogni inizio estate nella speranza che diventi una hit, finendo poi col consegnare inevitabilmente al pubblico l’immagine di un vecchio rimbambito che cerca a tutti i costi di rimanere ggiovane e di piacere ai ggiovani, vestito come un ggiovane in tutti i programmi per ggiovani.
“Ma vaffanculo,” gli dicevo nella mia pacata presa di posizione, “sei bollito e ridicolo. Vai a farti un brodino, che a ballare in quel modo ti si stacca la dentiera!”.
La mia visione forse un po’ fuori dalla realtà era che questi musicisti, raggiunta una solidità economica che farebbe invidia a tanti, superata l’età in cui ci si può permettere di cercare di piacere alle ragazzine dinoccolandosi su un palco e sorridendo ammiccanti ad una telecamera, dovrebbero ritirarsi in un eremo, o magari uno studio di registrazione, e cercare di fare musica con la mentalità e l’approccio di chi vorrebbe almeno tentare di produrre un’Opera d’Arte. Poi non è detto che ci si riesca, chiaro, e molto probabilmente, anche e forse soprattutto se ci si riesce, quel lavoro non piacerà a nessun altro che a lui, o magari a qualche dozzina di persone. Ma questa è l’Arte. E sono più che convinto che qualsiasi musicista degno di questo nome, posto di fronte all’alternativa poco successo ma opera d’arte o molto successo ma opera di merda, sceglierebbe la prima opzione.
E questo per me è un criterio imprescindibile per valutare quanto un artista si meriti la mia stima, per quel che vale: se sceglie la prima opzione ha la mia stima, altrimenti il mio disprezzo. Per quel che vale, ripeto.
Poi col tempo questa mia rabbia si è un po’ placata, sia perché incomincio ad essere convinto che certa gente sia proprio bollita e che un Opera d’Arte non sarebbe più in grado di realizzarla, con tutta la buona volontà, sia perché ho iniziato a pensare che la vanità sia una droga davvero potente e che non è detto che io, posto nelle stesse condizioni, mi comporterei davvero da puro di cuore.
Ma questo mio essere più accondiscendente in fondo non fa altro che aumentare la stima che ho nei confronti di chi invece la strada più difficile decide di seguirla, e il meraviglioso David Sylvian è sicuramente uno di questi.
Chi avesse la sfortuna di non conoscerlo, sappia che David Sylvian agli inizi degli anni ’80 era leader dei Japan, un gruppo synthpop alternativo di un certo successo e piuttosto gradito al sottoscritto. Poi, sciolto il gruppo, iniziò una carriera solistica che continua tutt’ora e che ha dato alla luce dischi come Brilliant Trees e The Secret Of The Beehive che l’hanno rilanciato alla fama mondiale con quei grandi lavori che mettono d’accordo critica e pubblico.
A questo punto, come già con i Japan, stava per raggiungere un successo commerciale mica da poco. E che fa il nostro? Batte il proverbiale ferro finché è caldo? Naaaa. Inizia a realizzare una serie di dischi in collaborazione con personaggi di altissima caratura, ma di scarsissimo fascino commerciale (Holger Czukay, Jaki Liebezeit, Michael Karoli, Robert Fripp…) con il conseguente ovvio risultato di produrre lavori ottimi ma graditi a qualche manciata di persone nel mondo, o poco più.
Dopo questa fase collaborativa, ritorna poi ai lavori solisti (non da solo, ovviamente, ma come autore a tutto tondo), tra i quali l’ultimo è questo Manafon la cui copertina spicca lassù, all’inizio di questo interminabile post.

Manafon è la voce di David Sylvian che canta sopra delle strutture musicali sottili come una ragnatela. C’è una sua intervista in cui l’intervistatore inizia il pezzo ponendo(si) una domanda: “Quanto riesci a togliere e comunque continuare ad avere una canzone?” e questa domanda descrive esattamente l’essenza di tutto il disco.
In ogni brano l’accompagnamento, la parte musicale, è costituita da frammenti, da piccole schegge di suoni che a malapena si legano l’un l’altro. Parlo di note di chitarra, rumori, sfrigolii, violoncello, sax, pianoforte, altri glitch e fruscii. Su questi impalpabili tappeti sonori poggia la voce che canta senza mai strafare, quasi trattenuta, ma sempre con quel calore unico al mondo che la contraddistingue.
Un disco piuttosto ostico dunque, poco accessibile. Ma, almeno per me, tanto attraente da averlo ascoltato ininterrottamente 4 volte di fila ed averlo trovato sempre più bello. È difficile da spiegare, ma c’è qualcosa di seducente nelle atmosfere sospese che si creano, tipo quei fili di nebbia sospesi in mezzo ai campi in inverno. Freddo, un po’ cupo e triste anche, ma seducente e bello da vedere, da assaporare.
Ne siano avvisati gli estimatori di Orpheus, di Forbidden Colours o di River Man: David Sylvian è da tutt’altra parte, non si è fermato lì. Ha dato il proprio contributo, un magnifico contributo e poi ha cercato altre mete.
E questo, per tutto quello che dicevo all’inizio, non fa che aumentare la mia ammirazione smodata per lui, anche solo per il coraggio che dimostra in questa sua costante ricerca.
Per non parlare del fatto che secondo me questo disco è un vero capolavoro. Un’Opera d’Arte.

10 settembre 2009

Múm - Sing Along to Songs You Don't Know

I Múm sono l’ennesimo prodotto musicale di quella prolificissima terra che è l’Islanda. Sarà l’aria, sarà la natura strana e difficile di quelle parti, sarà una certa scuola che si è sviluppata lì, ma la densità di gente musicalmente valida che arriva da quella terra è davvero impressionante.
Personalmente non li conoscevo affatto, ma il loro primo lavoro risale al 2000, quindi diciamo che non si tratta di una band proprio di primo pelo. In ogni caso, il disco appena uscito è davvero magnifico, di quelli che ti fanno pensare che la musica, anche nelle sue espressioni meno seriose, è ancora in grado di produrre opere divertenti, originali e deliziosamente ascoltabili.
Siamo nell’ambito del pop, molto orchestrato e giocondo, pieno di inserti ritmici e ritornelli accattivanti. Si va dalle filastrocche romantiche a vere e proprie costruzioni indie-prog dai risvolti imprevedibili ed originali, sempre vivaci e arrangiati con buon gusto.
C’è gente interessante lassù in Islanda.

8 settembre 2009

Ciao Mike

Mike Bongiorno se ne è andato, ed è come se non ci fosse più una di quelle cose che pensavi che ci fossero da sempre e che fossero eterne, tipo il Festival di Sanremo, la Formula 1, i sacchetti di plastica (tanto per citare cose che sembrano eterne e che invece ogni tanto si mettono in discussione).
Un po' dappertutto oggi salta quindi fuori la celebre Fenomenologia di Mike Bongiorno, scritta da Umberto Eco quasi... reggetevi forte: 50 anni fa!
Ecco, me la sono riletta e trovo che sia ancora attualissima nel descrivere il fenomeno Mike come è stato da quando lo conosco io, quindi diciamo da 15 anni dopo quel saggio a ieri.
Cioè, Mike è sempre restato uguale.
Quello che invece è un po' più triste è che, a leggerla oggi, i telespettatori ne risulterebbero perfino sopravvalutati.
Quindi: prima Mike era a un certo livello e gli spettatori potevano considerarsi superiori. Ora Mike è (era) sempre lì, ma gli spettatori, ben che vada, sono allo stesso livello.
L'esortazione finale del saggio, "Voi siete Dio, restate immoti" non è stata ascoltata.

La riporto qua, leggetevela:
[...]Il caso più vistoso di riduzione del superman all'every man lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna. Idolatrato da milioni di persone, quest'uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta uni ta (questa è l'unica virtù che egli possiede in grado eccedente) ad un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o fin zione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto. Lo spettatore vede glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti.
Per capire questo straordinario potere di Mike Bongior no occorrerà procedere a una analisi dei suoi comporta-menti, ad una vera e propria "Fenomenologia di Mike Bongiorno", dove, si intende, con questo nome è indicato non l'uomo, ma il personaggio.
Mike Bongiorno non è particolarmente bello, atletico, coraggioso, intelligente. Rappresenta, biologicamente parlan do, un grado modesto di adattamento all'ambiente. L'amore isterico tributatogli dalle teen-agers va attribuito in parte al complesso materno che egli è capace di risvegliare in una giovinetta, in parte alla prospettiva che egli lascia intrav vedere di un amante ideale, sottomesso e fragile, dolce e cortese.
Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. Entra a contatto con le più vertiginose zone dello scibile e ne esce vergine e intatto, confortando le altrui naturali tendenze all'apatia e alla pigrizia mentale. Pone gran cura nel non impressio nare lo spettatore, non solo mostrandosi all'oscuro dei fat ti, ma altresì decisamente intenzionato a non apprendere nulla.
In compenso Mike Bongiorno dimostra sincera e primiti va ammirazione per colui che sa. Di costui pone tuttavia in luce le qualità di applicazione manuale, la memoria, la me todologia ovvia ed elementare: si diventa colti leggendo molti libri e ritenendo quello che dicono. Non lo sfiora minimamente il sospetto di una funzione critica e creativa della cultura. Di essa ha un criterio meramente quantitativo. In tal senso (occorrendo, per essere colto, aver letto per molti anni molti libri) è naturale che l'uomo non predesti nato rinunci a ogni tentativo.
Mike Bongiorno professa una stima e una fiducia illi mitata verso l'esperto; un professore è un dotto; rappre senta la cultura autorizzata. È il tecnico del ramo. Gli si demanda la questione, per competenza.
L'ammirazione per la cultura tuttavia sopraggiunge quan do, in base alla cultura, si viene a guadagnar denaro. Allora si scopre che la cultura serve a qualcosa. L'uomo mediocre rifiuta di imparare ma si propone di far studiare il figlio.
Mike Bongiorno ha una nozione piccolo borghese del denaro e del suo valore ("Pensi, ha guadagnato già centomila lire: è una bella sommetta!").
Mike Bongiorno anticipa quindi, sul concorrente, le im pietose riflessioni che lo spettatore sarà portato a fare: "Chissà come sarà contento di tutti quei soldi, lei che è sempre vissuto con uno stipendio modesto! Ha mai avuto tanti soldi così tra le mani?".
Mike Bongiorno, come i bambini, conosce le persone per categorie e le appella con comica deferenza (il bambino dice: "Scusi, signora guardia...") usando tuttavia sempre la qualifica più volgare e corrente, spesso dispregiativa: "si gnor spazzino, signor contadino".
Mike Bongiorno accetta tutti i miti della società in cui vive: alla signora Balbiano d'Aramengo bacia la mano e dice che lo fa perché si tratta di una contessa (sic).
Oltre ai miti accetta della società le convenzioni. È pa terno e condiscendente con gli umili, deferente con le per sone socialmente qualificate.
Elargendo denaro, è istintivamente portato a pensare, senza esprimerlo chiaramente, più in termini di elemosi na che di guadagno. Mostra di credere che, nella dialettica delle classi, l'unico mezzo di ascesa sia rappresentato dalla provvidenza (che può occasionalmente assumere il volto della Televisione).
Mike Bongiorno parla un basic italian. Il suo discorso realizza il massimo di semplicità. Abolisce i congiuntivi, le proposizioni subordinate, riesce quasi a tendere invisibile la dimensione sintassi. Evita i pronomi, ripetendo sem pre per esteso il soggetto, impiega un numero stragrande di punti fermi. Non si avventura mai in incisi o parentesi, non usa espressioni ellittiche, non allude, utilizza solo metafore ormai assorbite dal lessico comune. Il suo linguaggio è ri gorosamente referenziale e farebbe la gioia di un neo-posi tivista. Non è necessario fare alcuno sforzo per capirlo. Qualsiasi spettatore avverte che, all'occasione, egli potreb be essere più facondo di lui.
Non accetta l'idea che a una domanda possa esserci più di una risposta. Guarda con sospetto alle varianti. Nabuc co e Nabuccodonosor non sono la stessa cosa; egli reagisce di fronte ai dati come un cervello elettronico, perché è fer mamente convinto che A è uguale ad A e che tertium non datur. Aristotelico per difetto, la sua pedagogia è di con seguenza conservatrice, paternalistica, immobilistica.
Mike Bongiorno è privo di senso dell'umorismo. Ride perché è contento della realtà, non perché sia capace di deformare la realtà. Gli sfugge la natura del paradosso; come gli viene proposto, lo ripete con aria divertita e scuote il capo, sottintendendo che l'interlocutore sia simpaticamente anormale; rifiuta di sospettare che dietro il paradosso si na sconda una verità, comunque non lo considera come vei colo autorizzato di opinione.
Evita la polemica, anche su argomenti leciti. Non man ca di informarsi sulle stranezze dello scibile (una nuova corrente di pittura, una disciplina astrusa... "Mi dica un po', si fa tanto parlare oggi di questo futurismo. Ma cos'è di preciso questo futurismo?"). Ricevuta la spiegazione non tenta di approfondire la questione, ma lascia avvertire anzi il suo educato dissenso di benpensante. Rispetta comunque l'opinione dell'altro, non per proposito ideologico, ma per disinteresse.
Di tutte le domande possibili su di un argomento sceglie quella che verrebbe per prima in mente a chiunque e che una metà degli spettatori scarterebbe subito perché troppo banale: "Cosa vuol rappresentare quel quadro?" "Come mai si è scelto un hobby così diverso dal suo lavoro?" "Com'è che viene in mente di occuparsi di filosofia?".
Porta i clichés alle estreme conseguenze. Una ragazza educata dalle suore è virtuosa, una ragazza con le calze co lorate e la coda di cavallo è "bruciata". Chiede alla prima se lei, che è una ragazza così per bene, desidererebbe di ventare come l'altra; fattogli notare che la contrapposizione è offensiva, consola la seconda ragazza mettendo in risalto la sua superiorità fisica e umiliando l'educanda. In questo vertiginoso gioco di gaffes non tenta neppure di usare pe rifrasi: la perifrasi è già una agudeza, e le agudezas ap partengono a un ciclo vichiano cui Bongiorno è estraneo. Per lui, lo si è detto, ogni cosa ha un nome e uno solo, l'artificio retorico è una sofisticazione. In fondo la gaffe nasce sempre da un atto di sincerità non mascherata; quan do la sincerità è voluta non si ha gaffe ma sfida e provo cazione; la gaffe (in cui Bongiorno eccelle, a detta dei cri­tici e del pubblico) nasce proprio quando si è sinceri per sbaglio e per sconsideratezza. Quanto più è mediocre, l'uo mo mediocre è maldestro. Mike Bongiorno lo conforta por tando la gaffe a dignità di figura retorica, nell'ambito di una etichetta omologata dall'ente trasmittente e dalla nazione in ascolto.
Mike Bongiorno gioisce sinceramente col vincitore perché onora il successo. Cortesemente disinteressato al perdente, si commuove se questi versa in gravi condizioni e si fa promotore di una gara di beneficenza, finita la quale si manifesta pago e ne convince il pubblico; indi trasvola ad altre cure confortafo sull'esistenza del migliore dei mondi possibili. Egli ignora la dimensione tragica della vita.
Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rap presenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiun gere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti.

Questa non è una foto

Questo:
è un quadro.

Qui un dettaglio a dimostrazione:


E qui un altro:


E pure questa non è una foto:


7 settembre 2009

Autechre - Incunabula

Esiste un termine piuttosto usato (ed abusato) nei meandri un po’ snob della musica ed è “seminale”.
In pratica, corrisponde al pistolotto fatto da Meryl Streep-Miranda Priestly in Il Diavolo Veste Prada. Per chi non lo avesse visto: la ragazzina neoassunta da una influentissima rivista di moda si fa in cuor suo beffe del mondo della moda, dei suoi meccanismi e della sua superficialità. La direttrice della rivista la annienta facendole notare che il colore (azzurro) del maglione sdrucito che la ragazza indossa in realtà è una precisa tonalità, il “ceruleo”, che un certo stilista aveva proposto anni prima ad una sfilata. Poi altri stilisti hanno iniziato ad usare quel colore per alcuni capi delle loro collezioni. Alla fine, tra scopiazzature e imitazioni, quella tonalità è arrivata fino ai grandi magazzini, dove la ragazzetta l’ha comprato pensando di fare una scelta letteralmente “casual”.
In ambito musicale l’essere “seminale” ha lo stesso significato: esistono musicisti che lavorano e creano le proprie opere al di fuori dei circuiti più commerciali e producono lavori che ben difficilmente potrebbero avere grande diffusione e successo. Però questi musicisti sono comunque influenti, perché presenti nelle manifestazioni che contano, seguiti da un pubblico che ama ricercare i propri ascolti, ma più che altro apprezzati dagli addetti ai lavori che si rivolgono a loro quando cercano ispirazione. E così le idee di questi personaggi pian piano si diffondono anche tra chi frequenta solo musica più commerciale o addirittura non ne ascolta affatto (per esempio tramite gli spot pubblicitari o le colonne sonore dei film). Ed è così che i suoni e gli arrangiamenti del singolo n°1 di oggi dei Black Eyed Peas (sono andato a cercarmelo sul sito di RadioDJ) sono così diversi e moderni rispetto a quello di Believe di Cher, n°10 anni fa.
Così vanno le cose: la musica evolve, grazie ai seminatori che spesso se ne stanno nascosti, ma senza il cui apporto saremmo ancora al rock&roll di Chuck Berry. O anche a prima.

Tutto questo mi è venuto in mente ascoltando Incunabula, album dato alle stampe sedici anni fa dagli Autechre, oscuro (ai più) duo dei pressi di Manchester, per la Warp Records, una delle più influenti case discografiche in ambito elettronico del mondo.
Ha sedici anni questo disco, ma io l’ho finalmente scovato in negozio pochi giorni fa e l’ho messo a rotazione continua sul mio stereo.
Ha sedici anni, ma tutto quello che senti sembra attuale e innovativo anche oggi, anzi di più: sembra un ingrediente fondamentale della musica odierna. Et voilà la seminalità: quello che hanno fatto si è diffuso, lentamente ma inesorabilmente, è stato assimilato, cannibalizzato, ricopiato e trasfigurato, fino a diventare costituente ovvio anche di quel che passa la radio all’ora di pranzo.
Occhio: non ci trovi il ritornello di Beyoncè o l’incipit di Shakira, ma nella loro musica potresti trovare dei suoni o dei modi di strutturare l’arrangiamento che arrivano proprio da lì. Ed è proprio questo che ho trovato meraviglioso: avvertire la bellezza di quella musica assieme alla sua autorevolezza, come a dire “ecco qua i maestri di tutti quanti”.
Per provare a descriverla, ma tanto è impossibile se non per cercare di inquadrare il genere, si sappia che si tratta di musica elettronica di tipo ambient/techno, ma con inserti ritmici non distantissimi da certe sonorità hip-hop più evolute. Il tutto rigorosamente solo strumentale.
Però ciò che è la cosa più intrigante di tutte è che si tratta di un disco bellissimo e piacevolissimo da ascoltare. Perché va bene l’importanza storica, va bene l’influenza, va bene tutto, ma se poi dobbiamo sorbirci un mattone inascoltabile, allora chi ce lo fa fare?
E invece con questo lavoro il rischio non si corre, anzi, la sensazione è sempre quella di assistere ad un magnifico e coinvolgente spettacolo di suoni avvolgenti ed ipnotici, rilassanti e perfettamente congegnati.
Un disco raro che fortunatamente ha dato frutti per gli anni a venire.

2 settembre 2009

Beck, The Velvet Underground & Nico

Beck è un tipo che mi ha sempre incuriosito. Partito come un geniaccio sui primi album, poi si è un po' ripetuto, smentendo in parte l'impressione iniziale.
Ma secondo me continua a rimanere uno dei migliori musicisti che si possa trovare in giro.
Ora sul suo sito ha deciso di pubblicare una riedizione completa del capolavoro dei Velvet Underground, The velvet Underground & Nico appunto, i cui brani sono ascoltabili liberamente e interamente in streaming o facilmente inseribili sul proprio sito come ho fatto qui sotto con la canzone introduttiva e più nota dell'album, Sunday Morning.
Pare che abbia in mente altre mega-cover, staremo a vedere.
Per il momento il mix tra uno dei migliori di oggi alle prese con uno dei migliori di tutti i tempi è senz'altro notevole. Per non parlare di questo modo sempre più aperto di proporre la musica a chi la vuole ascoltare, slegandola, almeno ogni tanto, dall'obbligo dell'acquisto dei costosissimi CD.