26 maggio 2009

Soap&Skin - Lovetune for Vacuum

Ci sono diverse buone ragioni per trovare interessante questo album.
Innanzitutto la foto della copertina: è un ritratto dell'artista, e a me una che si presenta così fa venir voglia di sapere che musica fa. Ma questa è una considerazione personale.
Poi perché è austriaca, e da quella terra, dopo i Grandi classici (Mozart, Haydn, Shubert, gli Strauß, Shömberg,...) e Zawinul, musicalmente non è che ci sia arrivato un granché degno di nota[1] e per questo un po' di curiosità a sapere che capita da quelle parti io ce l'ho.
E infine perché ha 19 anni appena compiuti (quindi album composto registrato e pubblicato ancora nei 18)!.
Cioè, la ragazzina, invece di smanettare telefonini a velocità supersonica o a filare i suoi coetanei, ha lavorato sodo nella produzione di un album bellissimo, dimostrando una serietà ed una capacità non comuni.
Non stiamo parlando infatti della belle ragazzine lanciate sui palchi e negli studi televisivi da megaproduzioni artistiche, ma di un classico esempio di fai-da-te abbastanza tipico nel panorama indie, e che quindi difficilmente coinvolge artisti così giovani.
Il genere è quel che deriva da piano (che la signorina suona dall'età di sei anni e che qui utilizza in modo dolcissimo ed elegante)+laptop+voce effettata, dai toni un po' lugubri in certi momenti, in fondo in linea con quello spleen esistenziale tipico delle adolescenti troppo mature.
Il buon gusto e la capacità di scrivere poi non le difettano di sicuro, e neppure un certo coraggio ad uscire dagli schemi più semplici e ovvi, senza mai però trabordare in ingenui eccessi causati da voglia di strafare. Tutto ciò ha dato origine ad un lavoro, al di là dei (futili) motivi che dicevo all'inizio, interessantissimo e piacevole da ascoltare.
Finisco riportando alcuni versi di una delle più belle canzoni dell'album, Spiracle, tanto per dare un'idea del personaggio:
When I was a child I toyed with dirt and I fought
as a child, I killed the slugs I bored with a bough
in their spiracle
when I was a child, pears pushed
me hard in my head
in my neck, in my chest, in my waist, in my butt
E poi, visto che mi affascina, aggiungo qui sotto un'altra sua foto, che sembrerebbe tratta dalla stessa sessione della copertina:
PS Rileggendo prima di pubblicare mi rendo conto di avere forse un po' esagerato con certi avverbi e aggettivi. In effetti, messo così, sembra che abbia descritto un capolavoro.
È che in testa rimane costantemente presente il rapporto qualità/età che altera un po' il giudizio obbiettivo.
Allora diciamo così: è un album che, pur non essendo perfetto, non solo promette molto, ma già realizza decisamente bene gli intenti di ottime idee compositive.

[1] Sì, vabbè, Falco. Capirai...

22 maggio 2009

Niobe - Blackbird's Echo

Un disco che definirlo "interessante" non è il solito eufemismo per dire che non ci piace (tipo quando lo si dice di una ragazza, assieme a "simpatica" o "è un tipo").
È invece un lavoro variegato e perciò indefiniblie, frutto del lavoro di Niobe (moniker di tal Yvonne Cornelius) che è riuscita a mettere insieme 12 brani che sono dei veri collage di suoni strambi e inusuali, fusi assieme a musica suonata in maniera più tradizionale (chè pure qualche accenno jazz, ma tranquilli: il disco in genere è tutt'altro che jazz), il tutto variamente tenuto inseme dall'educatissima voce di Yvonne, che a sua volta sembra composta da sfumature che vanno da Billie Holiday a Sade, da Laurie Anderson alla nostra Giorgia, a Suzanne Vega... insomma a tutto quanto c'è di bello nel cantar femminile.
Le sfumature degli arrangiamenti vanno dall'elettronica al folk sussurrato, dall'orchestrale al vintage anni '80, dal rumoristico al minimalista, dal percussivo al jazz libero, al carillon.
Alla fine comunque questo è un disco di non difficile ascolto, nonostante la sua ecletticità risulta tutto sommato abbastanza digeribile. Non proprio da party sulla spiaggia, ma comunque ascoltabile senza troppo impegno, ma con la soddisfazione che si prova nell'affrontare qualcosa di inusuale, di mai sentito.
Un piccolo gioiello da ascoltare con la soddisfazione di avere fatto una bella e rara scoperta.

21 maggio 2009

Patrick Wolf - The Bachelor

Personalmente ho un rapporto quasi affettivo con questo ragazzo.
Si era infatti nel 2005,  da poco avevo scoperto l'esistenza di quell'universo parallelo della musica detto indie, e una delle prime rivelazioni era stato il suo secondo album, Wind in the Wires uscito nel febbraio di quell'anno.
Il suo ascolto mi convinse di una serie di cose a riguardo di questo mondo: era popolato di giovani ragazzi (Patrick Wolf doveva ancora compiere 22 anni allora) pieni di talento, capaci di prodursi un album praticamente da soli, suonando quasi tutti gli strumenti e registrando brani liberi dalle coercizioni dell'industria discografica e liberi dai vincoli di pubblicità, passaggi radio e promozioni a Top of the Pops.
Poi ho scoperto che questo universo parallelo, essendo un intero universo, contiene anche tutti gli opposti a questo modello e pure altre varianti che non avrei mai immaginato (e che magari non immagino tutt'ora). E allora vai con tizi over-70, produzioni complesse, orchestre, composizioni furbette scala-classifiche e così via, ma intanto Patrick mi è rimasto nel cuore.
Nel 2007 ha pubblicato un nuovo album, The Magic Position, che mi è piaciuto un po' di meno, un po' più facile (leggi: banale), meno incisivo, sicuramente non memorabile. Quasi un tentativo (in parte riuscito, a quanto pare) di affacciarsi alle classifiche, nel tutto sommato legittimo tentativo di monetizzare un po' di quel talento di cui è dotato.
In questi giorni è infine uscito il nuovo album, The Bachelor, inizialmente concepito come un doppio, poi diviso in due uscite distinte (la prossima parte dovrebbe vedere la luce nel 2010 e si sa già che si intitolerà The Concqueror) e per quanto mi riguarda siamo tornati ad alti livelli.
Più maturo, chiaro, più complesso, più articolato, più impegnativo e un po' meno accessibile del bel Wind in the Wires, ma complessivamente di nuovo a confermare l'impronta geniale del suo autore, questo disco, in bilico tra pop, canzone d'autore e composizione orchestrale, è una delle cose più belle uscite in questa prima metà d'anno. Perfetto da ascoltare con occhiali da sole e vestiti leggeri nell'anticipo di estate di questi giorni.
Procuratevelo, datemi retta.

18 maggio 2009

Anarchy nel varesotto

Questa è davvero fantastica.
A Cunardo, in provincia di Varese, un ragazzino (immagino io) ha scritto su un muro il testo di Anarchy in the U.K., forse la canzone più famosa dei Sex Pistols.
Apriti cielo!
Leggete qua, qua, qua e qua le reazioni della popolazione locale. C'è proprio tutto: la preoccupazione per i nostri bambini, i gatti morti, il disagio di fondo, la setta degli incappucciati, le Bestie di Satana,...
Ora, io dico: può anche darsi che il parroco, il sindaco, alcune mamme e pure "una signora che vive in via Vaccarossi, a due passi dalle scuole" non sappiano chi erano i Sex Pistols e tantomeno che siano al corrente di quanto quel gruppo di ragazzotti coi capelli sparati alla fine non fossero molto di più che la deriva commerciale di un fenomeno (il punk) ben più ampio e radicato di quanto loro non rappresentassero.
Ma porca miseria, nemmeno un giornalista che le sappia 'ste cose? Non uno che alla fine sia saltato su a dire: "Ma benedetti ragazzi, datevi una calmata, è solo il testo di una canzone!"

E io che a 15 anni trascrivevo i testi dei Cure sul diario...

14 maggio 2009

W.Marsalis - Come il jazz può cambiarti la vita

Che il jazz possa davvero cambiarti la vita è forse un po’ eccessivo. Probabilmente (anzi sicuramente) l’ha fatto all’autore (per chi non lo sapesse: uno dei massimi esponenti del jazz contemporaneo) e a tutti quelli di cui parla in questo libro.
La spiegazione è abbastanza semplice: il jazz per sua stessa natura porta ad esprimersi assieme ad altre persone, a loro volta intente ad esprimersi al loro meglio, improvvisando su un canovaccio armonico e supportandosi l’un l’altro in modo che il risultato di quella complicata interazione sia un insieme comunque coordinato, ma libero di prendere pieghe inaspettate per chi suona e per chi ascolta.
Inoltre il jazz è indubbiamente il massimo contributo degli Stati Uniti alla Storia della Musica. Suonarlo ed ascoltarlo vuol dire immergersi completamente non solo nell’arte, ma pure nella storia sociale di quel paese e nell’attitudine, che ne è pure uno dei punti di forza, a non piangersi addosso, ma a dare sfogo ai propri sentimenti, ancorché tristi o frustrati o depressi in un canto (suono) liberatorio capace di ridare entusiasmo a chi lo produce e a chi lo ascolta.

Questo è il punto di vista di un uomo che ha vissuto di jazz da sempre (suo padre e buona parte della sua famiglia sono stimati jazzisti) –sebbene ammetta più volte di averlo snobbato in gioventù perché poco cool– e ascoltare la sua entusiastica descrizione di questo mondo è un buon modo, per chi già ama il jazz, di addentrarsi un po’ di più nella non accademica filosofia che lo sostiene.

Parlando di questo libro comunque mi sento in dovere di riportare un paio di obiezioni che mi sono sorte leggendolo.
Innanzitutto, come dicevo all’inizio, il fatto che il jazz possa veramente cambiarti la vita è probabilmente vero, ma solo se sei un musicista e lo suoni realmente. Voglio dire, tutti quei giochi di interplay, di traino ritmico, di appoggio armonico, di ascolto reciproco, li puoi vivere veramente solo se sei tu a farli. Marsalis sostiene che un buon effetto lo possano avere anche su chi ascolta, ma temo che sia un eccesso di entusiasmo. È magnifico, sublime, ascoltare il prodotto di certi gruppi ben affiatati, lo so bene, ma essere parte di essi deve essere un’esperienza molto, molto più fondamentale. Effettivamente capace di cambiare il tuo modo di vedere le cose.
E in secondo luogo è vero che quella cultura (quella Americana) è trainante nel mondo occidentale, ma non al punto, per noi italici almeno, da poterci identificare completamente con essa. Anche in questo caso assaporare il gusto del frutto migliore di quei terreni è inebriante, ma ad esserci vissuti dentro deve esserlo ben di più.
In ogni caso, fatte queste due tare, la tesi di Wynton Marsalis (quella del titolo) è comunque interessantissima e permette di ascoltare l’entusiastico racconto di una persona eccezionale per la passione della sua vita.
E già questo basterebbe.

Poi ci sono alcuni ritratti –o meglio schizzi, si tratta infatti di poche pagine ognuno– di alcuni dei mostri sacri del jazz: Miles Davis, John Coltrane, Theolonious Monk, Art Blakey, Duke Ellington,… alcuni dei quali ha conosciuto personalmente (o ci ha anche suonato insieme), altri conosciuti tramite la loro musica e i loro scritti.
Sono altre pagine appassionate ed appassionanti, un vero tributo di stima ai suoi Maestri. Una splendida occasione per scoprire qualcosa in più sul loro conto o sul giudizio che ne ha uno che se mostro sacro non è poco ci manca, è solo questione di tempo. O anche un’occasione in più per chi, beato ignorante come me, alcuni di questi ancora non li conosce(va).

11 maggio 2009

Un giorno ci processeranno tutti

In Italia stiamo facendo queste cose qua:
"È l'ordine più infame che abbia mai eseguito. Non ci ho dormito, al solo pensiero di quei disgraziati", dice uno degli esecutori del "respingimento". "Dopo aver capito di essere stati riportati in Libia - aggiunge - ci urlavano: "Fratelli aiutateci". Ma non potevamo fare nulla, gli ordini erano quelli di accompagnarli in Libia e l'abbiamo fatto. Non racconterò ai miei figli quello che ho fatto, me ne vergogno"
Qui una bella interpretazione di Leonardo:
“Alla tv, parlavano di questo barcone che hanno respinto nelle acque internazionali. Una vergogna. Secondo me l'umanità finisce lì. Cioè, quando respingi qualcuno disarmato, tu sei fuori da qualsiasi umanità. Ci processeranno tutti per questo, un giorno”.
“Tutti?”
“Ma sì, perché siamo tutti d'accordo, non lo sa? Vada al bar, dica che Maroni spara all'orfano naufrago e alla puerpera disidratata, anzi peggio, dica che li abbandona in mare... otto su dieci le diranno Giusto! Così le diranno! Diranno che hanno votato Pdl apposta! Non ci crede, Padre? Vada...”
“Non sono tuo padre. Sono la tua Coscienza. Non posso andare al bar”.
“Ci processeranno un giorno. E non potremo neanche dire che eseguivamo gli ordini, perché non abbiamo eseguito niente noi. Noi gli ordini li davamo, noi votavamo per la legge e per l'ordine e quelli...”

5 maggio 2009

Pontiak - Maker

Perché ogni tanto mi piace il rock fatto di sudore polvere e sangue.
I Pontiak sono i Carney bros., tre fratelli originari della provincia americana, tanto somiglianti tra loro quanto coeso è il suono prodotto dai loro strumenti chitarra-basso-batteria(-tastiere) più voci di tutti e 3. Si dice che tra i membri della band ci fosse pure un quarto, ma lui non era fratello, non aveva mangiato la stessa sbobba, e allora niente, fuori dal gruppo. Sul sito della loro casa discografica (Thrill Jockey) li si definisce ‘rurali’, molto legati alla loro terra e dicono che durante i tour spesso rifiutino le camere di albergo per campeggiare sotto le stelle.
Fanno una cosa che si chiama stoner-folk-psych-rock, che nel loro caso significa un suono non velocissimo e pesante, molto distorto, con improvvisi cambi di umore e certe reminiscenze Floydiane vecchia maniera che al sottoscritto non possono che dare un enorme piacere. Canzoni generalmente di lunghezza normale, a parte la title track che supera i 13 minuti e mezzo.
Mai come in questo caso si applica la – per me comunque imprescindibile – regola che un album deve essere inteso (ascoltato) come un unico blocco indivisibile. Questo lavoro infatti da il meglio di sé se ascoltato dall’inizio alla fine senza interruzioni, salti o ripetizione: mettetelo nel lettore, schiacciate PLAY e godetevelo fino alla fine. È il miglior consiglio di degustazione che riesca a darne.
Le canzoni si susseguono infatti sorreggendosi l’una all’altra, amplificando i cambi di ritmo e sonorità che poi, in un approccio quasi frattale, si manifestano all’interno dei singoli brani.
Qua e la ci sono degli elementi noise (Headless Conference, Heat Pleasure), ma pure dei momenti di serena quiete (la splendida Aestival, che sboccia in una delicata ballata folk per poi evolvere in una cavalcata finale che sembra quasi un esplicito omaggio a Waters & Gilmour), magari piazzati ad arte uno di seguito all’altro (come appunto nel caso di Heat PleasureAestival) in modo da regalare una meravigliosa aria da quiete dopo la tempesta.
Altra perla è Wild Knife Night Fight, che, sopra una ritmica che incede con passo grave e potente, esibisce uno splendido ricamo di voci (tutti e tre i fratellini). Da applauso.
Il fulcro di tutto il disco è però la monolitica Maker, colosso (non solo per la lunghezza) pesante e vario, con momenti di rabbia, di apparente spossatezza, di follia, di precisione e ancora tanti momenti di sensazione/emozione da sembrare incredibili in una sola canzone.
Il disco è stato registrato completamente live (che immagino significhi in presa diretta) nello studio 4x4 di casa Carney, generalmente prendendo come buono il primo take e lasciando gran spazio all’interpretazione dei musicisti contribuendo a dotare il disco di  un’aria spontanea e immediata.
Vera.
Come veri sono il sudore, la polvere e il sangue. 

4 maggio 2009

C.Augias, V.Mancuso - Disputa su Dio e dintorni

Il titolo di questo libro descrive esattamente il suo contenuto: il giornalista ateo Corrado Augias ed il teologo  (ovviamente) credente Vito Mancuso sostengono una disputa su Dio e dintorni, dove per dintorni si intendono la Chiesa, i dogmi, la Bibbia, ...
L’approccio è quello di affrontare via via i vari argomenti prendendosi ognuno lo spazio necessario ad esporre le proprie tesi e opinioni. Non però in forma di singoli svolgimenti di tema, ma in forma di un vero e proprio dialogo, anche se in qualche modo a distanza.
Cioè, senza mai esagerare con la dialettica e senza mai sfociare nella polemica, i due rispondono l’uno alle argomentazioni dell’altro approfondendo il proprio punto di vista in una insolitamente pacata discussione su temi anche molto forti ed attuali (per dire: Eluana Englaro, Welby e testamento biologico, ingerenza della Chiesa nella vita politica, fecondazione assistita…).
C’è da dire che le posizioni di Mancuso sono tra le più progressiste che io abbia mai avuto modo di ascoltare da parte di un cristiano cattolico, tanto progressiste da apparire quasi eretiche perfino ai miei occhi , e questo contribuisce notevolmente alla pacatezza del dibattito, visto che quelli che potrebbero essere i principali argomenti di attrito vengono a smussarsi considerevolmente.
Encomiabile è infatti l’atteggiamento del teologo (definito “filosofo” dalla Chiesa, cosa che dovrebbe sminuirne il valore, ma che, come sottolinea lo stesso Augias, invece non fa che aumentarne l’autorevolezza) che si potrebbe riassumere in due massime, una evangelica, “Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato” (Mc 2,27) e una sua personale in cui afferma “io penso la mia vita in funzione non della Chiesa, ma del mondo”.
Queste sue posizioni sono talmente anomale all’interno del cristianesimo che lo stesso Augias si ritrova più volte a stupirsi dell’atteggiamento del suo “avversario” sostenendo che certe cose le dovrebbe dire lui, non chi sta dalla parte della Chiesa.
E questo è per lunghi tratti il leitmotiv del libro: Augias affonda criticando gli atteggiamenti più incomprensibili da parte della Chiesa e Mancuso scansa dichiarandosi d’accordo e muovendo lui stesso obiezioni e rimproveri alla dottrina ufficiale che lasciano interdetto chi si aspetterebbe una sua presa di parte.
L’altro leitmotiv è poi l’atteggiamento concreto e rigoroso di Augias contrapposto ad una visione ed esposizione più poetica e letteraria del teologo.

Va da se che io mi ritrovi ad essere quasi sempre in accordo con Augias e non solo per la sua opinione generale sull’argomento – l’ateismo – quanto per il suo approccio concreto e razionale alla materia. Mi sono infatti spesso ritrovato a perdere l’orientamento durante i voli pindarici di Mancuso, incapace di seguirlo ad esempio nelle sue disquisizioni a sostegno della trinità o del suo approccio alla teodicea; da un lato confermando una mia quasi fisiologica impossibilità ad accettare le costruzioni necessarie a giustificare certe posizioni teologiche ed dall’altro fornendomi ancora una volta conferma che certi ragionamenti riescano ad essere portati a termine solo a patto di gettare un po’ di fumo negli occhi di chi ascolta, ché un discorso limpido e razionale difficilmente porterebbe da qualche parte.
Dal suo canto invece Augias a mio avviso indugia un po’ troppo nei suoi attacchi alla Chiesa e alle sue istituzioni, soprattutto romane. Io concordo con lui al 100%, ma proprio per questo mi da l’impressione di accanirsi su un bersaglio fin troppo facile e tutto sommato anche secondario rispetto all'effettiva esistenza di un Dio, rischiando così di trascurare quelli che sarebbero discorsi più fondamentali, quali l’etica al di fuori di una religione o lo scopo dell’esistenza in un ottica atea.

Come sempre accade in questi discorsi – e come serenamente riconosciuto pure dagli autori – nessuno chiuderà questo libro con una posizione diversa da quella con cui lo aveva aperto, almeno sui punti sostanziali. Però trovo che possa essere utilissimo a chi, pur giunto ad una personale conclusione (credo/non credo/non so), come me, ogni tanto desidera fare il punto della situazione e rimettere in discussione la propria posizione su questi temi.
Con in più la non frequentissima opportunità di leggere le posizioni dell’opposta “fazione” espresse con una pacatezza ed intelligenza magari non convincenti, ma sicuramente interessanti.